mercoledì 22 giugno 2011

Linguaggio e vernacolo in Piero Bartalena

Prefazione a Piero Bartalena
Linguaggio e natura, natura e vernacolo


Opera varia, articolata quella di Bartalena, dove l’incisività del verso e la sua simbiosi con le tematiche trattate danno corpo ad uno stilema che trasmette al lettore pathos, forza lirica, e una grande trasfusione di sentimenti nobili e a volte desueti.. Il suo vernacolo è il risultato di una vera fusione tra memoriale, problematiche umane, realtà sociali, esistenzialismo panico, e  lessico personale; simbiosi che dà forza e vigoria all’immagine poetica. Tanti i tasti toccati e tutti espressi con grande spontaneità, quella spontaneità che caratterizza il vernacolo di Bartalena fino a rendere, con l’ausilio di un importante significante metrico, visive e colorite le scene e le figure insaporite dal tempo: ‘R coprifoo, ll’Arno, Pisa, ll’autunno, ‘r profumo dell’erba, la terrazza Marconi, l’amore, Valle Graziosa, ll’esercito italiano, cannonate, Badoglio, bovi, zolle rivortate, trebbiature. Tutte raffigurazioni esterne tese a rivestire sentimenti e colori interiori.
          Lo Zingarelli alla voce vernacolo così riporta: Proprio del luogo in cui si è nati o si vive. E credo che la più grande anomalia, a proposito, sia quella, pur apprezzabile e per lo sforzo di studio e per i contributi alla storia delle lingue, di voler generalizzare il vernacolo con grammatiche e sintassi specifiche che sfuggono alla varietà incontrollabile delle esigenze e dei substrati. D’altronde la peculiarità degli spazi è talmente ridotta e limitata ad aree veramente microportanti, che non era raro il caso che si usassero forme e parole diverse da corte a corte dello stesso paese, o da rione a rione della stessa città. Era sufficiente un muro un po' più elevato a creare microstorie che affondassero le radici in esperienze personali. Il vernacolo è parola, con tutte le sue sfumature fonetiche variabili da luogo a luogo, cultura, stilema e poesia, soprattutto poesia che comporta musicalità, immaginazione, personalità che riguardano solo e solamente quel poeta con la sua totalità espressiva strettamente connessa al suo bagaglio di vita e di cultura vernacola: “In questo vernacolo ritrovo le mie origini, la mia terra, il mio paese, le mie tradizioni culturali ed umane. In esso rivivono fatti ed accadimenti della mia vita, personaggi amati ed odiati, sentimenti che sembravano sopiti e che riaffiorano con impeto e nostalgia.” (Dalla prefazione dell’autore). Il vernacolo è voce che cambia e si trasforma da luogo a luogo, spesso da componente a componente della stessa famiglia, in base alle relazioni di vita che ogni singolo individuo ha e ha avuto. Una volta bastava un fiume come il Serchio a determinare diversità notevoli a livello linguistico. Dato che le vie di comunicazione erano ridottissime e che i paesi erano pressoché relegati a vivere una vita isolata e circoscritta al proprio ambiente. Quindi la prima norma, e la più importante, credo che sia quella di accettare le piccole storie linguistiche legate singolarmente ad esperienze individuali per motivi di vita e per fattori di ambiti  economici, di studio e di mestiere.
              Ma non è il caso che qui ci si soffermi a disquisire sulle verità filologiche, competenze che non ci riguardano. E per venire a noi e non rendere troppo serio il discorso linguistico sia a livello diacronico che sincronico, il linguaggio di Bartalena è prima di tutto il suo e poi del posto. Dell’autore in primo luogo perché zeppo di tutte quelle esperienze maturate con la sua professione nell’arco della vita. Ed è bene che sia così, se Dio vuole, perché l’arte e quindi la poesia è prima di tutto personalità, spontaneità, e adattamento di un lingua alle esigenze di una materia abbastanza convulsa che vuole fuoriuscire. E non il contrario. Un autore vero si rifiuterebbe senz’altro, cari grammatici di vernacolo, di sottoporsi a virtualismi paragrammaticali o paramorfosintattici per incasellare il suo mondo in base a delle forme prestabilite che ne condizionerebbero la spontaneità. Il Nostro si esprime con il suo vernacolo che serve per rispondere ai problemi della gente, a criticare chi ha le spalle tonde, a chi governa e non conclude niente. Serve per ricordare a tutti le storture del mondo e che ci sono tanti bambini che muoiono di fame, e perché no, serve anche per dire alla moglie “Ti amo.”: “‘R vernàolo serve pe’ risponde’ / a tutti ‘ve’ probrèmi della gente, / ... / Serve pe’ riordà’ ar mondo ‘ntero / che tanti bimbi moiano di fame / ... / Nun t’ineressa? Allora siei un infame!” (‘R vernàolo)   E l’autore si commuove per le più piccole cose, trasformando delicati sentimenti in versi di vera poesia, come quando viene attratto da due poveri uccelletti. Mentre se ne sta tranquillo a prendere fresco sul terrazzo, la mamma di un suo amico lo chiama indicandogli un nido di cardelli caduto per terra. E lui corre giù con tutta fretta, senza maglia, per salvarli. Piccole storie d’altri tempi, che sanno di un naturalismo fuciniano, o meglio pascoliano e che denotano questa netta fusione fra anima e natura, caratteristica principale di questa raccolta. E quello che ancora di più conta nell’autore è la continuità di carattere stilistico e ispirativo  che i diversi critici hanno avuto occasione di mettere in evidenza commentando le sue opere. Il poeta è alla ricerca continua di se stesso e del suo mondo interiore rappresentato dalla realtà che lo circonda e che lo ha circondato. La sua poesia è fatta di simboli ed ogni simbolo naturale rappresenta un suo stato d’animo: “S’andava sempre a piedi lungomare / insino alla terrazza dér Marconi / pe’ ammirà’, abbracciati, ‘r turbinare / delle spume ‘he facevano ‘avalloni. / ... / ‘Ndietro un si po' tornà’, siemo a ‘na svorta... / E’ meglio ‘he tutto ‘vésto te lo scordi.” (La terrazza Marconi). E quando tutto farebbe pensare a un finale melanconico o decadente, interviene la chiusura a dare una svolta spesso divertente alle poesie.   Di qui il suo amore viscerale, espresso ora in maniera ironica e divertita, ora passionale per una natura che sembra quasi contraccambiare al poeta il suo affetto, agevolandogli la comunione con i suoi suoni, i suoi colori, i suoi palpiti, le sue vibrazioni, le sue gioie e i suoi dolori: “Vorrei sdraiàmmi sopra ‘n prato verde, / tra ‘r profumo dell’erba e biancospino, / nella scèpre d’allòro sempreverde” (Sinché); “Ll’estate è già finita ‘òr su’ alidore, / scende la prima pioggia ‘n su’ giardini, / ner sottobosco è tutto uno sprendore: / so nati nun so quanti cicramini.” (Ll’autunno).  Bartalena si concretizza in maniera icastica nella sua campagna, o nella sua città che personificata quasi gli risponde: “A giugno Pisa è tutta ‘nfiocchettata / bandiere ar vento, labari e striscioni, / su’ lungarni si snoda la sfilata / tra ‘r cozzà’ d’armature e di targoni.” (‘R giugno pisano).  Per leggere la sua poesia e la sua lingua occorre interpretare i quadri dei suoi ambienti; e il vernacolo che ne deriva è un linguaggio metaforicamente panico e allegoricamente saporito, soprattutto quando l’autore si rifà alle sue memorie, lit motif  di questa sua opera.
             Be’ mi’ tempi recita il titolo. Ed i tempi passati, anche se a volte tragici, assumono un significato particolare, perché si attorniano di un’aureola che va oltre il fatto. Tutto si trasfigura, tutto si insapora di una nostalgia sottile, anche se il timbro della poesia di Bartalena fa sì che non si cada mai in toni struggenti,  riportando sempre il tutto a una commozione rattenuta.
           E’ il tempo che sfoltisce e la vera vita “è quella che ricordiamo, non quella che viviamo” come afferma Marquez.; quello che resta è degno di esistere, e di costituire l’essenzialità della nostra storia. La realtà non è più tale, ma sopravvissuta nell’alcova dell’anima, si trasforma in immagini, che attorniate da un dolce sentire, da un senso fugace di malinconia, si fanno vita, vita nuova. Poche e preziose sono le cose che si salvano, nel bene e nel male, considerando il potere dell’oblio: “E’ nel ricordo e nel tempo che gusto quelle lacrime.” afferma Pirandello. “Cor coprifoo da sola nun poteva. / Aveva fatto tardi Anna Maria. / Visto ‘he guasi guasi ci piangeva / m’offersi di portalla dalla zia / ‘he stava ‘n d’una ‘asa popolare / vicino ar pòrto, giù, doppo ‘r viale. / ... / Ciavéva un vestitino tutto bianco / co’ una trina trasparente ar petto: / ‘vànto era bella ‘òr visino stanco!” (Doppo ‘r coprifoo).  E i paesani, la trebbiatura, i bovi, un contadino in quer di Terricciola, le donne chiaccherone, quer nighio di ‘ardelli, Valle Graziosa, i prati profumati d’erba nova sono tanti ritratti:  simboleggiano e concretizzano stati d’animo di un poeta alla ricerca di figure, storie e tradizioni che, chiuse nell’animo da tanto tempo, ora esplodono e rinascono, ritrovandosi nei  colli rigonfi di ulivi verdeggianti del proprio paese, dove la Certosa mette in mostra i suoi marmi bianchi su un ventaglio che al tramonto si fa tutto rosa. Pennellate, acquerelli, tratti d’ inchiostro di un’anima che riporta sul foglio una realtà affettiva, sempre più ampliatasi nel tempo: “Mòrmorano ‘torrenti ‘he, nascoste, / portano ll’aqque limpide ‘n dell’Arno / e nell’antìo erano preposte / a smòvere frantoi, molini... Indarno / vòrgo la mente a que’ be’ tempi ‘ndati / ‘vando, d’estate, ingenuo bambino, / gioàvo ‘o’ mi’ fratelli tant’amati / fra ll’aiòle fiorite der giardino” (‘R mi’ paese). 
        Il linguaggio di Bartalena è spontaneo, suasivo, arrivante; non di rado accade di essere attratti dalle sue scene paesane, dai suoi racconti generosi e umani, dalle sue figure d’altri tempi. Ma ciò che attrae ancor di più è la sua singolare capacità di tradurre le piccole cose in combinazioni liriche di grande impatto umano: “ “Corra, dottore!” - disse la Sorrenti / “vienga a piglià’ ‘vésti du’ angioletti. / Nun li posso lascià’ a morì’ di stenti; / bisogna rimbeccalli, poveretti!” / ... / Missi la gabbia sopra ‘r terrazzino / attaccata ar muro’on un chiodo / riempiètti ‘oll’acqua ‘r beverino / e li lasciai tranquilli propio ammòdo".

Arena Metato 20/01/006


Nessun commento:

Posta un commento