mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione alla silloge "Lunario" di Luciana Cerne

Prefazione
a
Lunario, Il Portone/Letteraria, Pisa 2001. Pp. 32 
di
Luciana Cerne

"Si è acceso un livido di freddo
 e il silenzio risponde senza fine
nell’autunno" di Luciana Cerne


Fin dalle prime battute di questa silloge dal titolo Lunario spicca un dire avvezzo al verso, una penna maliziosa e capace di costruire sinergie metriche varie e intarsiate, ondulanti e oscillatorie, più ampie e meno, con inversioni e aumentazioni, in questo succedersi di stagioni tanto vicino al consumarsi della vita.
E quanta intimità esistenziale in questi versi di Febbraio “e prende vita la piazza / di colori, di trine e trasparenze / di clamori richiami e meraviglie. / Risonanze remote, goccianti / d’infinita nostalgia, lama sottile / a squamare i recessi nel cuore. / Un’altra luna imbiancava la notte.” Quanto vivo quel memoriale che goccia nostalgia e si mischia ad una realtà apparentemente colorata ma forse non sempre in sintonia con un’anima che porta la maschera di un carnevale! E poi quella notte che sembra spegnere il tutto per lasciare appena un chiarore tanto simile allo struggimento di un ricordo. E cosa dire di quella significativa metafora contenuta nel verso di Marzo “Si schiudono lusinghe di mimose” e della successiva chiusura che ha tanto il sapore di primavere insolute “Forse ero nata per le fiabe / e la realtà è frusta sulla pelle / ma nel vuoto apparente di carezze / c’è solo il vento a smuovere la gonna”. (Marzo) La sensibilità di Luciana.Cerne passa attraverso un’osservazione impressionistica del mondo. I colori, le luci, i movimenti dei corpi visibili sono colti nell’incanto del loro immediato e fugace apparire.
Le cose che circondano la poetessa si sono fatte immagini di vita, di una vita che cerca di protendersi verso l’esistenza innestandola ai ricordi, ponendosi soprattutto quelle questioni dell’essere che inquietano l’esistere. Ma “Abbiamo varcato il millennio / con l’anima inquieta / di chi attende risposte / a perenni domande ancora / sospese nel vuoto più oscuro.” (Plenilunio d’inverno). Sì! Luciana Cerne usa tutte le tecniche possibili e immaginarie, ma lascia spazi al lettore affinché possa interagire con lei in questo succedersi di variazioni temporali; crea un vero serbatoio con funzione di idillio, per utilizzarne poi gli elementi nel suo procedere allegorico e metaforico. I rami goccianti, i suoni striduli, il tulipano bianco, le ginestre schiuse, i pollini di miele, il gelsomino, le lune pellegrine, le scogliere aguzze, le rondini in picchiata. Tutto ha un senso, ogni elemento contribuisce al tutto, alla composizione di un pensiero che è cosciente del correre del tempo, del suo crollare, del suo rovinare veloce i momenti più dolci della vita. Restano i ricordi che in certe espressioni fanno notare anche una volontà di renderli consistenti a quasi nuova vita, per sfidare le stagioni. Ma “Crolla il tempo di miti e di leggende / nel mistero di lune pellegrine / testimoni di notti senza inganno. (Giugno).
E gli ultimi guizzi dell’azzurro se li cattura il cielo per lasciare soltanto i singhiozzi velati della sera. “S’apre un guizzo di cielo / a catturare attimi azzurri / nel singhiozzo velato della sera.” (Un’altra estate) Esemplificativo il costrutto per aumentazione a significare il crescere dell’intensità della partecipazione esistenziale. E la realtà sembra farsi tutt’uno con l’autrice, esprimendosi per lei: dal paesaggio sommerso di nebbia e di brina, alle chiare lune della Candelora, alla terra che esala folate languenti, fino a un inverno “Ingenuamente affideremo/ rinnovate speranze / all’evolversi ignoto / di novelle stagioni.” (Plenilunio d’inverno) dove l’utilizzo di una serie di settenari dello stesso ritmo fanno risaltare la sincronia con la quale si rinnovano le speranze verso stagioni imperscrutabili.
Sembra prevalere l’endecasillabo su una estrema, comunque, variazione di versi. Spicca la capacità di mutarne la funzione abbreviandolo in novenari, ottonari, o rallentandolo facendo poggiare il tonico sulla 4a, 7a, 8a, sillaba o ampliandolo nei raddoppiamenti; e così l’opera appare fortemente marcata da un’effusione costante di musicalità, da un senso sinfonico irrompente in questa sua stesura metrica. Non certo per il piacere di giocare con le tecniche ma piuttosto per dare consistenza ai sentimenti ricorrendo al significante metrico. Il verso deve significare, deve accompagnare i contenuti coi suoi ritmi e gennaio ad esempio sembra farsi lento, quasi meditativo coll’insistere sui novenari dal tonico sulla 2a, 5a, 8a. “ Mi incantava il paesaggio / sommerso di nebbia e di brina / coi rami goccianti di gelo / nei brividi chiari dell’alba. / Gennaio intagliava cristalli/.../”. E poi l’ampliarsi degli spaziosi endecasillabi della chiusa di Marzo come per simboleggiare le speranze alle soglie della vita. Ma le tecniche non devono far credere che l’autrice si sia adoperata tanto cerebralmente da affogare la spontaneità; emerge, questa, dall’insieme compatto, da un ordito di tematiche supportato dalla sinergia tra anima e senso panico, conclusione di un sentire schietto e immediato. Le cose scaturiscono da sé, controllate solo dal forte calore del crogiolo sentimentale. E la poesia è l’insieme che armonizza il tutto. Barthes auspicava che la poesia moderna dovesse suggerire al lettore un campo di risposte emotive e concettuali legate alla sensibilità del singolo. Al lettore va lasciata una parola che contenga simultaneamente tutte le accezioni (motivo ripreso da Umberto Eco); il simbolismo classico faceva per ogni figura un referente ben preciso, il simbolismo moderno è simbolismo aperto proprio perché vuole essere comunicazione dell’ambiguo. Il lettore va lasciato libero protagonista nell’avviare i meccanismi della conoscenza. E di spazi allusivi ce ne sono in abbondanza in questa opera della Cerne, forse anche di più nella parte riguardante i mesi che nella seconda delle stagioni, dove l’anima sembra rendersi più esplicita e la confessione più diretta. E di questi spazi la poesia ha bisogno, servono a dare quel senso di indeterminatezza per farsi vestire da ciascuno. Così Giugno si fa giovane, felice, tanto quanto una gioventù spensierata, nei primi endecasillabi dell’incipit “Lungo il greto del fiume fiori gialli / serpeggiano di luce tra le felci /...” (Giugno), anche se il tempo dei miti crolla e resta il ricordo di “quando la notte magica di giugno / profumava l’acqua fiorita sul balcone / che la nonna metteva a benedire / al passaggio del santo a mezzanotte”.
La fretta  e la fugacità di una stagione che dovrebbe perdurare, ma che il più delle volte è solo struggente memoriale, sono rese in Aprile dall’incipit di cinque settenari legati strettamente tra loro da un uso sapiente dell’enjambement. Poi si amplificano nell’endecasillabo come per dare il senso dell’assuefazione al dolore “La ragione consuma l’esistenza / e ti rassegni a ricolmare il vuoto/...” (Aprile). Mentre agosto, esplosione di vita, è troppo intenso per non essere vissuto a pieno; ma al contempo è anche stagione di perplessità, che si insinuano nell’anima in preda a un orizzonte chiaro di antiche scogliere per un “girovago cuore”: “Non so se tornerò / e annego l’anima persa / nell’infinito azzurro / di una scia, vortice solitario / di un battello ormai lontano. / Chissà se tornerò...” (Agosto)
Sarebbe poi veramente lungo insistere sull’uso di anastrofe, di costrutti per inversione, per aumentazione, legati più ad una funzione significante che ad una ricerca tecnica. Però possiamo annotare alcune finezze, che l’autrice sciorina con spontaneità, trascinata da una musicalità di cui si sente preda. Assonanze a geminatio nello stesso verso “sui diaframmi velati dei ragni” con effetti di dolce sonorizzazione incrementata ancora di più dalle finali in i di tutti i grafemi componenti; consonanze in “Velluti sbiaditi” “lotte...Giuliette” e ancora assonanze in “promesse...novelle Giuliette”; e ancora in “novelle attese” con rime interne in “velate...sfiorate” (Maggio); e assonanze e rima interna, ancora, in “pungente dicembre...trasparente” (Plenilunio d’inverno). Questo succedersi di figure, di suoni, questa varietà di versi che si alternano in un flusso ondulatorio e diversificato, questa adesione tra mondo esistenziale e simbologia panica, sono un insieme di elementi che danno all’opera della Cerne armonia, freschezza, fascino, e soprattutto un grande spessore d’intensità lirica.


                                                                                                                                             Nazario Pardini
Settembre 2001

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