venerdì 4 maggio 2012

Recensione di Umberto Vicaretti su "Aspetterò l'arrivo delle rondini" di Giannicola Ceccarossi


Caro Giannicola,


ho letto “Aspetterò l’arrivo delle rondini” con crescente coinvolgimento e con adesione via via più convinta, fino a immedesimarmi, quasi, nella tua mano, a pre-vedere e a “pre-scrivere” i tuoi versi (anche se non sono un medico, confeziono ricette e suggerisco “integratori”...). Da viaggiatore clandestino ti ho accompagnato nel ripercorrere, a ritroso, le tappe e le stagioni trascorse, in una sorta di proustiano viaggio alla ricerca del tempo perduto, con il rimpianto per una stagione irripetibile e per sempre svanita e, insieme, con la sorpresa meraviglia di “come fu breve dispiegare il silenzio degli anni!” (Eravamo coriandoli di cielo), una stagione e un tempo che sanciscono l’irrimediabile cesura tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che resta.
Ristabilire un contatto e riannodare memorie elevandole a nobiltà poetica e semantica  è operazione congeniale alla sola penna dei poeti autentici, e tu tra questi. Ma riesumare la felicità di quel tempo, caro Giannicola, è operazione disperata, perché, come suggerisce Jim Morrison,  Non tornare mai nel luogo dove sei stato felice... La felicità appartiene al tempo, non al luogo…”. E per te, che ne sei consapevole, la resa è totale: “Ora non so guardarti attraverso la siepe / che lenta dirada verso altre sponde / Accanto al muro dove lasciammo orme calcinate / oggi c’è solo il vuoto” (Quando soffiammo grappoli di viole); ciò che si è sognato un tempo disvela una realtà ingannatrice e spergiura, un po’ come la leopardiana Natura matrigna: “Credevo che gli spini dell’astragalo / fossero gli occhi della luna / Credevo che le favole / … / rimanessero negli schiamazzi dei bambini / … / Ma oggi cosa rimane? / Forse il vuoto” (Ma oggi cosa rimane?).
E la disillusione si snoda attraverso una sorta di odissea della memoria, una rivisitazione malinconica e assorta di un tempo favoloso, di “…quando attendevamo / che l’aurora ci portasse lontano”, e di quando “ Credevi che i colori / avrebbero allontanato i crucci”. Ma improvvisamente si sfalda il sogno, perché nel novembre incombente “non trovammo pane né legna da ardere”, poiché il turbine degli anni aveva “lasciato che le illusioni tagliassero le labbra”. Non rimane, quindi, che tenersi “stretto il giorno dalle lunghe spighe” (Il giorno dalle lunghe spighe), e conservare gelosamente il ricordo dei giorni felici, i giorni di quelle incantatrici e carezzevoli estati.
E già si profila il tempo degli addii: “Non so quando il giorno / ci separerà da questi brividi / che non ci lasciano da tempo”, perché una stagione è conclusa e “…i sogni fanciulli  / non hanno più sussurri / perché l’aria che ci ha addormentato / non sa aprire i segni delle mani”, mentre si fa più acuta la consapevolezza dell’umana fragilità “Siamo minime foglie / … / che la memoria riapre al silenzio che scompare” (Siamo minime foglie) e di un ciclo vitale che inesorabilmente si compie; momento questo, umanamente  e cristianamente accettato: “A volte a me sembra che i giorni / non lascino ore da consumare / … / Ciò che mi resta è il soffio delle nuvole” (Quando sarò dal Padre).
Eppure, la dicotomia netta tra passato e presente, la diacronia solo apparentemente disperante tra un tempo irrimediabilmente concluso e una realtà che presenta i segni della disillusione (ma anche la nobile compostezza della dignità del vivere), non induce allo scoramento e alla rassegnazione, ma produce una reazione, uno scarto vitale e fidente; apre a una stagione nuova, scopre itinerari e percorsi capaci di rinverdire il tempo degli affetti e delle corrispondenze: “E quando la malinconia scalfirà i brividi / le nostre implorazioni filtreranno il corso degli anni / e noi saremo ancora insieme / Altra è la storia che ci attende(Altra è la storia che ci attende). Si delinea, perciò, un nuovo inizio, illuminato da un afflato onirico e visionario, che prova a superare il contingente e tende ad esplorare le vie del trascendente e dell’assoluto; esigenza, questa, che già traspare dall’intera orditura della silloge, ma che trova più slancio e vigore nelle ultime due parti della raccolta (Perché questo giorno e Le ombre) : “Forse cercheremo altro pane / prima che improvvisa scenda la neve / ma non è l’arco celeste / a ridestare rimorsi”.
Si profila il distacco, sereno, dagli affanni del vivere, come quando, abbandonate le ambasce  quotidiane, si stempera l’urgenza del presente; e allora “Forse ci placheranno le mareggiate / le pene bruceranno i desideri / … / Se è il respiro a nascondersi / aspettiamo che le bocche si uniscano / … / Dove nessun sussurro ci lega ancora / domani riavremo quella scossa del cuore / che ci confuse all’arrivo della primavera” (Forse ci placheranno le mareggiate). Ma ancora e ancora preme la nostalgia del tempo che fu, il tenace ed eterno ritorno della fiamma che brucia e tiene ben viva la forza gentile del sogno e della poesia, compagna fedele (insieme con le figure e gli affetti familiari) di un’intera vita: “Se sapessi dove si leggono i versi dei poeti / e sentissi mille spine ferirmi / questa angoscia che mi è amica cadrebbe in altro luogo / e la luce falserebbe le mie dita / …/ Forse strapperò zolle quasi verdi / a questo mondo smarrito / le stringerò e le lascerò gemmare / fino a quando le fate non le riportino indietro”.
Ma il sogno cede il passo ad un repentino, eppure atteso e accettato, cambio di scena. “Adesso che la notte non finisce più / prego e veglio i miei morti / Oggi è già domani / ed è ora che si apra il cielo” (Oggi è già domani). Si fa più urgente e acuto il desiderio di un ritorno all’intimità e agli affetti familiari, a quel tempo lontano e a quei luoghi di un’età sognante e felice. A tutto tondo emergono, miracolosamente intatte, le creature fascinose e innocenti di quella terra buona, un universo virgilianamente panico che prende vita e respiro (foglie, spighe, alberi, fiori, frutti, ruscelli, odori, sapori; ma anche campane e aquiloni e favole), creature che icasticamente assurgono a inossidabili e rassicuranti testimoni dell’infanzia, di quel tempo in cui “- … le rose infioravano il giardino / e le voci erano quiete al trascorrere del tempo - / oggi tutto è fermo / il giardino le campane le voci / … / Altre primavere mi allontaneranno dalle Tue vesti / Ora la sera mi trascina in un’alba di foglie / e le mie mani, Padre, ancora ti cercano” (E le mie mani, Padre).
Da un lato, dunque, la decostruzione del passato, la sua frammentazione nelle tessere di un puzzle che, prese singolarmente, danno la misura di un’ostinata e meticolosa rivisitazione del tempo andato, consumata, sul piano stilistico, in una tessitura di versi sciolti, non condizionata dai canoni della metrica (anche se fa capolino, con ricorrente insistenza, l’uso dell’endecasillabo, come ad esempio nell’incipit di “Ascolta”: “Anche questi tremori che misurano / quanto ancora ci sia da ricordare”; o nel titolo della raccolta, ripetuto anche nel corpo della lirica eponima, “Aspetterò l’arrivo delle rondini”), ma ricca di rimandi arcani e di metafore immaginifiche, che si elevano a cifra di consumata padronanza del verso e del ritmo, talvolta arricchito da enjambements che, interrompendo la struttura sintattica del verso, stanno quasi a significare, simbolicamente, la separazione tra passato e presente, tra realtà e sogno, tra i luoghi dell’anima e quelli immaginati e cercati per dare lenimento al cuore e risposte alla sete dell’inconoscibile: “Sapessi almeno dove sei / o dove vanno i tuoi pensieri / con quella tua ombra che non tace” (Sapessi almeno dove sei). 
Dall’altro lato, invece, quasi a ripristinare un continuum tra “questo nostro tempo consumato” e i luoghi e il tempo di un nuovo inizio (“accompagnami in quest’ultima corsa / e fa che sia un Tuo cenno a ritrovarmi / Ora il mio volo è una vela argentea che guarda il cielo” - Debole è la pioggia) c’è il sistematico ricorso all’uso del futuro fin dai titoli stessi delle liriche (Aspetterò l’arrivo delle rondini; Quando sarò dal Padre; Sarà solo il tuo anelito; Presto verrà il caldo; Nulla più diremo; Ma oggi con te altro cercheremo…). Questa reiterazione del tempo a venire, unitamente ai rimandi ad un altrove prossimo venturo, ricorrenti stilemi della raccolta, sottendono un divenire che plasticamente sottolinea il valore simbolico, e starei per dire religioso, di un’attesa che travalica i confini del contingente e del reale per assurgere alla dimensione onirica e catartica di un avvento che, già nel titolo stesso della raccolta, suona come fiduciosa e profetica epifania di un tempo nuovo.
Tanto ancora ci sarebbe da dire sulla preziosa raccolta, ricca di echi classici, soprattutto novecenteschi (Saba, Ungaretti, Quasimodo, per certi versi anche Luzi…), ma che si distingue per una sua originalissima vena intimistica, dal timbro lievemente crepuscolare (Giorgio Bàrberi Squarotti la collocherebbe tra i modelli più riusciti di quella che lui chiama “poesia del cuore”).

Roma, 10 marzo 2012 - Umberto Vicaretti   

  

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