domenica 22 luglio 2012

Ivano Mugnaini "IL TEMPO SALVATO"


-                     Il sogno di un mare inesistente – L’errore che ci spinge alla ricerca – Ciò che fa di me un uomo è l’avere  imparato, plasmando, la creta indocile del vivere – sono tanti tasselli di una poetica che rende umanamente vero il percorso poetico di Ivano Mugnaini. Perché è vita nel suo scorrere un po’ lieto, un po’ accidentato; nel suo scorrere precario e doloroso, anche, di cui siamo coscienti. Ed esistiamo. Ma ne siamo convinti? o è un esistere falso, e quello vero è proiettato e irraggiungibile?
-          Azzardiamo sguardi in cieli lontani, col rischio di incespicare nelle sporgenze della vita. Rischio non raro. Ed è così che soffriamo, pur alleggeriti dal nostro poetare: soffriamo di questi spazi ristretti, taedium vitae. L’uomo ha double face. Vive da uomo, azzardando l’anima e la mente oltre i confini. E  si può bruciare.
-          “Ma intanto ridono (i bambini), e alzare la testa / per vedere il sole è anche per te, ora, / una forma vitale di follia”.
-          “… l’istante / in cui ti senti vivo, / seppure fragile, / inadeguato all’eterno.”
-          Queste  poesie sono talmente nuove, e contaminanti che, ironizzando,  con una vena di malinconia, sulla tragicità della vita,  si rendono tutte utili all’organicità dell’opera. Non si può sezionare. Se poi si tiene di conto della parola è sorprendente come  sappia, con le sue dilatazioni, accompagnare l’autore nella traduzione dell’anima. Una parola ampia, secca, sfrontata, dolce, ma soprattutto azzardata nella rottura del verbo e della sintassi per rincorrere il dilemma dell’esistere. Una parola che riesce a fare della quotidianità un trampolino di lancio verso la possibilità dell’impossibile. 
-          Ho ritenuto opportuno pubblicare l’opera tutt’intera per dare la possibilità ai miei lettori di gioire della sua simbiotica fusione fra dire e sentire. E tante sarebbero le occasioni per spunti e riflessioni.

         Nazario Pardini

IL TEMPO SALVATO



Raccolta

Di


Ivano Mugnaini

Malgrado le difficoltà della mia vicenda, malgrado i disagi, i dubbi, le angosce,

malgrado il desiderio di uscirne fuori, dentro di me non smetto di affermare

l'amore come un valore. [Roland Barthes]




Sezione I:



“Tra la poesia e la vita”





L’amore è la capacità di avvertire

il simile nel dissimile.

Th. W. Adorno, Minima Moralia, III

                                                                




       Incontriamoci adesso 



Corri amore, prendi una tee-shirt e un’arancia

incontriamoci in un albergo di provincia

con le persiane azzurre e un balcone

che sa di basilico, terra e fiori di campo,

un albergo qualunque pigramente affacciato

su un vicolo stanco di polvere e passi

di suore e bambini che cantano

nenie, pifferi, topi, tubi di scappamento,

è questo l’attimo, è questo il momento, amore,

porta solo le tue labbra e un’arancia ,

incontriamoci in un albergo di provincia

vicino al mare.

Io berrò il tuo seno e la tua guancia

sarò il bambino e tu la mia bilancia

getteremo la maglietta sul tetto scuro

della tua cara amica che sta in Francia

tu sarai le labbra ed io sarò l’arancia,

non esitare, vola sulle tue scarpe più belle

quelle leggere, di tela rosa e bianca,

incontriamoci adesso,  in un albergo di provincia

anche senza il mare.




   ***



   Dentro un letto d’alghe



Dentro un letto d’alghe

lontano dal mondo, con te,

perla che sgorga dalla pelle

pupille gelose che bevono

la luce dei tuoi occhi;

o, se così non fosse,

con te, dentro un letto d’alghe,

oceano lento, sconfinato,

per dirti che non ti amo

perché non mi ami,

ma dirtelo così vicino,

così all’interno, così profondo,

che l’eco sarebbe stilla d’eterna

bugia, ape impazzita che ronza testarda

e feroce sopra e dentro il miele

della tua e della mia follia.




   ***





         Vivere, forse





   Vivere, forse, per un granello

di bellezza, anche se non sai come

né perché e non si vede cornice

né quadro né si legge la chiave

del gesto, la mano che avvolge

con bestiale eleganza la rete calata

nel pelago, senza un riso o un ghigno,

meccanica metodica

tarlo che logora sereno

morde e martella compìto,

spietato, secco il fiato nel fondo

dei polmoni, apnea, abisso, esplodere

rosso di buio, e il flauto dolce

che ti scava dentro, inatteso.



   ***


   Il giusto peso



   Dare, ora, alle parole

il giusto peso, è tutto

ciò che abbiamo, scegliere

cosa dire senza oscillare, goffo,

tra il rumore dello sghignazzo

e il tremore prudente

di chi ti ha amato, bianco

di capelli volati per la strada

uno ad uno. Sollevare le parole

con le braccia, sentire la pelle

bruciare di sudore ad ogni sillaba

che riga l’asfalto, ogni silenzio

che sfregia la spina.

   Parlare e tacere a tempo,

prima che il tempo deponga

una lapide ironica su ogni istante,

monologo cupo di vecchio ubriaco,

dialogo di comari che si lagnano

dei prezzi folli del supermercato.

E’ ora di darsi, nudi, alle parole,

sperando in un abbraccio di passione,

o almeno in un riso pietoso, alito

sul collo e sulla mano, profumo

di vento che ti passa accanto mentre

guardi due occhi accesi, e il silenzio

che ti esplode dentro è un nemico

che puoi ancora annientare.



   ***


   Sibilla



La chiamasti amore, lei,

Sibilla, la poesia,

la poesia, carne

soffice, molle nelle mani sopra

gabbie di tendini, ossa cieche

all’abbraccio feroce,

occhi sbarrati, croce, delirio,

le braccia puntate sul letto,

mitra di carne, fuoco mentre

ride, serena, intangibile.

Ma resta, là dove non sai vedere

né toccare, nell’iride azzurra

del tuo occhio di colosso

montanaro nutrito di caglio denso

e aria eterea di panorami

strappati alle urla del vuoto,

il sorriso dell’attimo breve, infinito

in cui forse l’hai amata, posseduta

senza sfiorarla, compresa nell’ombra

delle stanze, nel vetro della finestra

socchiusa in cui, guardandola,

l’hai scordata, cercandola l’hai smarrita,

perdendoti l’hai veduta, vorace,

identica a te.




   ***




    Chimera

- a Dino Campana -



La più ardua e la più chiara, notturna

“Chimera”, perla in uno scrigno di velluto

nero. “Non so se tra rocce il tuo pallido

viso m’apparve”, scrivi, urlo e sussurro

alla tua eterna Gioconda, sorriso di sfida

tra le dita del mondo.

E il mistero di lei lo chiami “dolce”,

tu che dalla vita hai spremuto mosto agro

fuori e contro il tempo.

“Dolce sul mio dolore è la Chimera”.

E il dolore, ora, è mio e tuo,

il più folle dei furti, pietra preziosa

immensamente pesante venata d’oro

nel profondo.

Allora, vedo anch’io in un riflesso lunare,

la faccia, la pallida guancia, la fronte fulgente,

la luce che acceca.

Felice di non  capire, condivido con te

un attimo di suono, eco lontana,

una valle in cui scorre cupo e forte

il tuo fiume e due ragazzi urlano

muti l’amplesso liquido del loro amore.

Sorride ancora la tua Gioconda Chimera

e l’orrore adesso è abisso in cui ansima,

urla armonia aspra di bora e fluida di resina

la tua poesia.

Nell’immobilità dei firmamenti,

tra i gonfi rivi respira l’arcano del pianto

e del riso che hanno fatto di te te stesso.

Anch’io adesso per un istante osservo

le ombre del lavoro umano, tempo

senza misura, senza la chiave

che apre e sbarra al cuore lo spazio

vitale di dolore e voluttà, anch’io,

forse, vedo e sento, nel viso di lei,

il sorriso di un volto notturno,

e ancora per teneri cieli lontane chiare

ombre correnti, e ancora, anch’io, la chiamo,

la chiamo Chimera.





   ***




 La notte





La chimica pura e corrotta

dei tuoi studi, gli anni

giovanili, terra d’elezione,

stagione effimera

della mente, la notte,

compagna insaziabile e assetata.

A lei hai dato tutto, il tuo seme sparso

nel grembo ha generato un corpo

arcano, rosso di sangue e grida,

pronto a correre, a fuggire,

appena nato.

Alieno alla luce, al riflesso paziente

delle aiuole, suore dai capelli a larghe

tese, ombra di chiese consacrate

al santo protettore del potere.

Le cosce della notte, sode, calde, distese

è lì che hai gettato i tuoi pensieri,

li hai lasciati stritolare

per ritrovarli fertili, schiusi,

urlanti di forme di parole.

La notte, calore di geli senza fine,

i guanti a scaldare la penna,

nella bocca il diamante di un riso

da incastonare

in un concetto, un’idea, pietra

che forgia e misura, frantumandolo,

il corpo del mondo.





   ***





   Lo sceneggiato a colori



Abbiamo rivisto insieme, su una rete

infima, minore, “Sandokan”, lo sceneggiato

a colori di una gioventù ruggente.

Abbiamo provato di nuovo a sognare

album di figurine da riempire

a poco a poco a scuola, lasciando una sola

casella vuota, quella che manca,

per fortuna, la Perla di Labuan,

da cercare domani, sperando

di non trovarla mai.

Ora, però, neppure gli occhi della Tigre

cerchiati di kajal, sanno più ipnotizzare,

è sbiadito il rosso del sole, l’India domestica,

chiosco abusivo di Cinecittà, sa di zucchero

caramellato andato a male.

Passa adesso, eterna e inesorabile, solo

la réclame. La segue e la incalza una canzone

anni settanta; “la piazzetta del mercato è ancora

là”, sì, ma il sorriso da contratto del cantante

biondo tinto somiglia, ora, a un ghigno,

o forse a un pianto.






   ***






   Verso te



Il tempo, l’ora vuota nell’afa,

una macchina ferma nel sole,

sulla pelle tessuti e pensieri

che vorresti di cotone, mentre

sudi e ridi nel sudario

di fustagno. Il tempo,

quello di cui parlano solenni

i poeti, osano afferrarlo, o almeno

si crogiolano nella morsa

della più megera menzogna.

Ricordo una saggia e solenne

poetessa romana che proponeva

una ricetta, gli ingredienti esatti

della pietanza ipocalorica

dell’esistenza. Beata lei! Quasi

santa, degna della gloria imperitura.

A me,

nell’afa settembrina, nell’auto

che sbarra alla bocca e ai polmoni

muri d’aria, resta un sibilo vicino

alla ruota, il timore di non sapere

se sia serpe o cicala, una radio accesa

che gira da sola su stazioni impossibili

da sintonizzare, e una biro leggera

per scandire le sillabe e gli istanti

di quest’ora sperduta.







   ***







   Quale amnistia?



Quale amnistia? Per quali peccati mortali?

E’ cosa da poco, in fondo, la morte, banale,

veniale o giù di lì, di sicuro scontata,

garantita come una sentenza, o un elettrodomestico

Philips con controllo illimitato di qualità.

Perché tarda allora l’indulto al vizio comico

del vivere? Qualcuno lo disse “assurdo”,

questo abuso, tale misera esuberanza, ma

fu solo mirabile tautologia.

Almeno allora uno sconto di pena alla pena

dell’essere, una via di fuga, d’ingresso, d’uscita,

il lusso di un carcere aperto alla speranza

della redenzione, il crimine antico di ritrovarsi

colti clamorosamente sul fatto, nel sacco entrambe

le mani, in piena flagranza di reato, nell’atto doloso,

e recidivo, di essere ancora vivi, ancora umani.



                  



   ***







     Il sorpasso



Come se si potesse scarnificare

la parola, irriderla, violentarla

e lasciarla lì, occhi gelidi, incolume,

feroce, ancora serena.

Inebriarsene, sfregiarla di carezze

di vetro, senza pagare lo scotto, la ruga

che scava la pelle, lasciandola bella

di bellezza ineffabile.

Passarle addosso il peso del corpo

e lamiere squadrate come si fa

con l’asfalto, confidando nella pazienza

dell’eterno.

Ma l’asfalto si squama, si sgretola.

La strada non è la stessa. Lacera,

deborda, la rabbia dei pini, affiorano

grida di radici.

Passi al mattino nell’abitacolo

surriscaldato, e ride l’operaio

del cantiere stradale guardandoti

blaterare tra i denti frasi

che si schiantano sui finestrini.

Ride, lui che sa, conosce la consistenza

del bitume, sonda l’amalgama con i piedi,

una danza imparata da bambino, gambe

salde tra i grumi e l’aria, cosparge

cantando la strada al giusto livello,

la quantità ideale.

Ride, mentre il cervello si tritura

in una pasta farinosa, impalpabile,

e prosegui, lento, a un palmo

dalla striscia della mezzeria. Scruti

il guard-rail con la coda dell’occhio

lasciando solo un esile spiraglio

al sogno, Il sorpasso, il mare verde

di Castiglioncello, l’urlo di un’onda

fulminea di sole, abbacinante,

sulla strada salmastra del tutto, del niente.





   *** 






   L'attimo



Sarebbe troppo agevole, per noi,

uno schianto di cielo, urlo, pianto,

riso stranito, poi più niente.

Solo il corpo, per istinto antico,

si affannerebbe alla ricerca

di un riparo di fortuna.

La mente, già leggera, lontana

sulla schiuma che vola

verso il mare.

Ma la nostra tempesta, per quanto

lunga, limacciosa, densa di vento

e torrenti, tronchi, liquami, rottami,

finisce sempre, all’indomani, con un sole

in tuta da lavoro, stinta ma brillante,

abbastanza per vedere che niente, davvero,

è cambiato.

Solo il ciglio del fiume è più largo,

corroso, cosparso di fango già pronto

a mutarsi in argilla. Estetica immutabile

del nulla, laccio emostatico di una subdola

serenità, vespa cieca a spasso

sopra e dentro la testa, ti lascia solo

l’attimo, lo scarto, fessura breve

di silenzio afferrato in controtempo.




  ***





   Se questa tregua inattesa del tempo



Se questa tregua inattesa del tempo sia affanno

o euforia, lo dirà forse il respiro di carne che abita

nel buio di ossa umide, oscure come le grotte di Matera.

Se saperti distante e vicina, prossima alle braccia,

alle dita, remota come isola bianca in atolli di palme

e corallo, sia quiete o cerchio di acque infestate

da ilari squali, è corrente incerta, verdetto

inespresso del mare, capriccio di rottami e maree.

Se ascoltarti giurare che oggi più che mai mi ami

sia premio o condanna, è come cercare

nei versi un profumo di donna sincero di vita.

E’ assurdo, sbagliato, frustrante. Ma un mattino

ti svegli e assieme al passo malfermo del cuore

e alla barba da rifare, c’è un profumo che aleggia

nella stanza. Dolce da far ridere, da incutere timore.

Non è tuo, non ti appartiene. Eppure ti segue, ti alita

accanto. Dolce e tenace da fare urlare di rabbia. Dolce

e tenace da inorridire. Dolce e tenace da farti vivere.







   ***







   Non è più concesso



   Non è più concesso, o almeno opportuno,

lasciare spazio al rimpianto. Visi che erano

sogno, brivido che squassava la schiena,

speranza, pazzia. E’ bene guardare ora

la foglia che cade sul tratto di via

che hai di fronte, prendere il sole che c’è.

   Adesso c’è il vento che sposta la foglia

sfiorandoti i piedi. E conta soltanto vedere,

con gli occhi spalancati, se l’aria che la muove

è brezza o fiato di treno marcio d’olio

e di distanza. Tonnellate di ferro corrono costanti.

Nell’attimo in cui ti sembra di cogliere una mano,

uno sguardo dal finestrino, ti distrae il grigio

e il viola, la venatura pulsante di quella foglia,

per un istante intrisa

della stessa lontananza.





   ***






   L’aria del Lungarno



L’aria del Lungarno scorre tra tempo e memoria.

Neppure il traffico la soffoca, cappio di lamiere

che scorre e non la sfiora. Si cammina, sul Lungarno,

come soldati in libera uscita, studenti che si specchiano

in un fiume che appare anche lui fuori

corso, distratto, smarrito, felice di bellezze

di pietra e di carne che gli scorrono accanto. E' un Labirinto,

il Lungarno, senza Minotauro. Cammini a passo rapido,

e ti ritrovi nello stesso punto, nell’attimo preciso per cogliere

l’incanto dei denti di una straniera estasiata

che guarda e ride, perché le straniere ridono sempre.

Riesci a rubarle uno sguardo, un profumo, ma prosegue, zaino in spalla, leggera,

danzante. Sa dove andare, pensi, conosce la destinazione. La incontri di nuovo, quattro

ore dopo, nel medesimo punto, sudata, sperduta. Qualche parola di inglese o spagnolo

inventato al momento per dirle che in fondo è normale, ci si può perdere anche a Pisa,

sulla strada circolare che costeggia il fiume. Ciò che conta è ritrovare il respiro, percepire

dalle finestre lo sguardo di Byron, di Shelley,

di Leopardi, dirsi, con loro, che ormai per questa sera è tardi,

per tutti gli esami, i sunti, i riassunti, gli schemi. Ciò che conta

ora è invitare la ragazza a camminare verso lo sbocco,

le labbra rosa della Marina, laggiù.

Perdersi in un tramonto screziato di rosso, trovando

nell’Arno una luce, il riflesso di un tempo immutabile,

mai uguale a se stesso.





   ***







     Forse l'infinito





   Ferma per ore sulla soglia, ti godi

il sole invernale, gatta folle, il freddo,

il vento, un punto che oscilla lentissimo,

forse l'infinito, o forse un moscerino

alla portata di un colpo di zampa.

Immobile di nuovo, pietra che freme,

assorbi il mistero dell'aria, il silenzio,

il senso vuoto e denso di essere viva.

Nient'altro.

Io ti guardo. Ti odio, e ti adoro.







   ***









     Quando verrà l'inverno



   Quando verrà l'inverno,

mortalmente sano, geleranno i virus

e le parole, si serreranno strette, spaurite,

le bocche spalancate dei bambini e i latrati

di cani straniti dal cigolio dei cancelli,

sguardi gialli sollevati verso vetri ignoti.

Piomberà, freccia, ferita, la sferzata

di un vento di neve. Respirare, in quel momento,

sarà azzardo, scommessa, mossa fragile,

sull'orlo di un dirupo. Sarà sentire,

nel fiato della tramontana, la voce,

l'urlo del lupo. Riconoscerlo affine,

vicino, sarà morire nei suoi stessi occhi,

nelle ossa appuntite, tornando magri,

leggeri, nei fianchi e nei passi

voraci, soli.









   ***









     Qualcosa dentro



   Qualcosa dentro non si adatta,

non si adegua, continua a pulsare

per moto proprio, ad ammalarsi, a guarire,

con impulso autonomo. Scorre la vita

a dispetto di te, ti porta su lidi

secchi, inattesi, proprio nell'attimo in cui

senti che niente muta il niente che, lento,

divora.

Ma qualcosa non si attaglia,

non si allinea. Sfiora la superficie un pensiero

perla di luce ignota, scivola

via con riso stranito, sognando il tonfo,

il crepitio dello schianto, il profilo

dello scoglio. O un prato

dove la distanza è

il salto di un fosso, di slancio,

ad occhi chiusi; l'attimo in cui la mente

diventa riflesso di sole, riso profondo,

leggero, del cuore.





   ***





                           





   Inadeguato all'eterno



Se le braccia spalancate

della ragazza nuda

avranno la pietà del miele

selvatico, se il suo sorriso

sconosciuto e impuro

ti darà la certezza del corpo

e del cuore, senza cercare

niente di più del battito

delle tempie e del fuoco del sudore,

avrai il dono scabro

di un attimo: l'istante

in cui ti senti vivo,

seppure fragile,

inadeguato all'eterno.







   ***













Sezione II

“L’attrazione”







L’odio non cessa con l’odio in nessun tempo, l’odio cessa con l’amore:

questa è la legge eterna .

   Dhammapada, I, 5

                                          

                                             
   L'attrazione



Quando vacillano le fedi,

quando le speranze e le stelle

che eri certo di toccare,

si spengono senza un palpito,

senza un rumore,

non c'è musica né suono,

non c'è nota

che possa entrare

in sintonia con te, perché è sempre

troppo allegra o troppo triste,

invita a un riso o a un pianto

che non sai accettare

senza vergogna, senza timore,

come se fosse troppa grazia

o troppa pena, come se il vizio

antico di vivere fosse una colpa

che non sai smettere di sentire.

A tratti, ti viene da pensare

di avere sbagliato direzione:

dal buio verso la luce, è esperienza

comune, è più agevole, più naturale;

più ostico per l'occhio e il corpo umano

è muoversi dalla luce verso il buio.

Forse alla nascita abbiamo sbagliato

cammino. Oppure, semplicemente,

la scommessa, il senso, il destino,

è individuare a tentoni, toccando

la calce fredda del muro,

l'interruttore. Senza paura di vedere

la mano che trema:

la fame, il bisogno, l'attrazione.







   ***







   Capita, fatalmente



Capita, fatalmente, magari mentre

mangio una pizza in un locale affollato,

di pensare per cosa vivo, per cosa

e di cosa mi nutro, davvero, nella carne,

nel respiro. In fondo, alla fine, rimane

solo lei, lei sola: la poesia. L'idea

di averla senza possederla, sperando

con coraggio, con velleità vitale,

di esserne posseduto nel piacere

di amarla fino a farmi male.

La poesia, la certezza che nessun potere,

nessun politicante avvelenatore di sangue

e di sorrisi, potrà mai strapparmela del tutto

di dosso, nessun assurdo, nessuna follia,

neppure quella che la genera e la uccide,

istante dopo istante;

neppure la mia.







   ***











 Non un alito d'aria



   Non un alito d'aria, un guizzo, uno scarto

di tempo. Anche il lago sullo sfondo, sarcastico,

stupendo, è un dipinto di autore manierista.

Navigano, sull'acqua e nella testa, vele di carta

e fustagno, orrore immobile, certezza del nulla

che scivola verso la sponda.

   Ma ripetono, tenaci, i poeti riuniti in schiera

compatta di lettura, in una formula, un'invocazione

a un dio muto, scontento, una delle loro parole

preferite: "vento - vento - vento".

   Rido amaro della loro patetica fiducia. Ma un alito

reale, spettina la fronte. Forse è chimera, vana

impressione. Ma anche le foglie fremono assieme

al cuore, perfino il lago si increspa. La vita ritrova

se stessa nella parola.



   ***







Tra polvere e luce



Tra gli arcani accordi del concerto

che ti risuona dentro, testardo

mentre fingi di ascoltare

il tintinnio perenne

di giulive dentiere elettroniche

che sbranano il fumo di un bar,

tra il calore istantaneo

che brucia la pelle di sete

e fame di inesplorati cammini

dispersi ghigni sarcastici

di ebbre fatali spirali,

tra polvere e luce

translucidi amplessi

aria e tempo

brivido e respiro

ricordo e sogno di domani,

ti trafigge ironico un raggio insistente

e ti vedi, d’un tratto, nudo, soffocato

dalle braccia di un pomeriggio sconfinato

mentre immagini ancora vele di fughe

su rotte di oceani, accarezzi silenzi

con le dita raggelate delle mani

e confondi le voci col latrare dei cani.

*  *  *











 Forse una poesia



Non so cosa necessiterebbe, oggi

per strapparmi a me stesso;

forse una poesia ben scritta, letta

in una stanza chiusa mentre attendo

che si liberi la via che conduce

alla vita. Una poesia che faccia piangere,

e ridere, che faccia comprendere,

come un cieco nel buio, lo stipite, l'angolo

appuntito nello stomaco, il mobile antico,

di mogano che non avrebbe dovuto

trovarsi lì. Una poesia che mi stenda

sul letto, placido e perso come un pensiero,

un ricordo, sicuro di essere nudo e morto,

seppure dotato di troppo respiro e coperto

da strati prudenti di cotone e fustagno.

Un verso, come un sasso che ferisca

la mano ma muova di onde

nuove lo stagno del tempo.









   ***





   Il sole d'autunno



"Aprile è il mese più crudele, genera memoria

e desiderio". E' vero, ma non meno aspro

è il vetro di questo ottobre di sole che bussa,

insistente, voce calda di amante. Invita a uscire,

riempiendo di te l'aria di un istante, cercando

nelle facce della gente il più spiazzante e sincero

sorriso. Lo sguardo che ti fa uomo, fragile,

imperfetto, eppure disegno, progetto

di cielo che nutre armonia, sole d'autunno,

da cui farsi scaldare ancora,

prima che un vento buio ci trascini via.



   ***













E’ meglio scrivere di riso che di lacrime.

Perché il riso è il segno dell'uomo.



                F. Rabelais











   I bambini là fuori



I bambini là fuori, ridono di gioia

vedendo uno sprazzo di sole

che sbuca tra le nuvole.

Sono gli stessi con cui, tra qualche anno,

dividerai il buio degli sguardi e il silenzio

delle parole.

Sono gli stessi che sfrecceranno sulle strada

mutilando la carezza

delle foglie.

Forse lo sono, anzi, lo sono certamente.

Ma intanto ridono, e alzare la testa

per vedere il sole è anche per te, ora,

una forma vitale di follia.













  ***





   L'età più oscura



  L'età più oscura è oggi, il sole che non scalda,

l'aria di furori vani, la corsa nel petto

che non si affianca alla strada, ai passi

di nani impettiti, alle rughe del selciato,

l'attimo passato, un grido, una voce che non ci ha

ferito né accarezzato.

Eppure il foglio che abbiamo davanti è ancora

bianco, quasi immacolato. Un dono, o forse

una sfida, o solo un segno, un indizio.

C'è, nelle cose, in questo niente che si eterna,

uno sbocco, una via di fuga, un inizio senza fine.

E nulla, neppure l'abisso di giorni e nottate,

dita lente di bambine che pettinano

orride bambole di plastica, potrà strapparci

al nodo del dubbio, la corda del funambolo

o dell'impiccato, l'idea che il passato è un cappio

che non ci ha ucciso, ci ha lasciato ossa e fiato

per respirare, e un presente incurante

del baratro.

Come un ramarro, contento del tratto di muro

e della pelle squamosa, assorbo calore,

quando c'è, e respingo al mittente le dita

untuose di certa gente.





   ***







         Occhio di ladro



Dopo i fari e gli spari, mai abbastanza

lontani, la ferita nera e gli occhi rossi

rannicchiati in zigomi di silenzi,

fermarsi in un angolo libero da luci

e da ombre, e sentire alla radio la beffa,

la cura, della poesia.

Uscire lento, furtivo, sguardo astuto

di ladro che ha trovato la combinazione

e ruba, un po' alla volta, per fame,

per sfizio, per necessità.

Occhio di ladro che sorride senza guardare

nessuno, perso e felice di potere e dovere

rubare per sempre.





  







   ***











 VLADIMIR: Questo ci ha fatto passare il tempo

 ESTRAGON: Ma sarebbe passato in ogni caso

 VLADIMIR: Sì, ma non così velocemente



        S. Beckett, Aspettando Godot











La speranza di settembre

        



Ora che sono finiti gli spunti antichi

e le idee adeguate annotate con cura

hanno ridisceso una per una scale di ferro

senza ringhiera, ora che perfino l'afa

lascia spazio alla coscienza della sera,

sarebbe tempo di scrivere solo del tempo,

come un naufrago che si innamora

dell'acqua e si abbandona

ad occhi aperti ad un infinito abbraccio.

Sarebbe tempo di percorrere le strade

dei perché lasciando a casa le borse

dei come, cercare una voce, una chiave

nelle ossa spezzate dei cani o nella carne

soffice di ghignanti puttane. Sarebbe tempo,

se il tempo non fosse fragile, imperfetto,

regolato da cronografi tarati male, ancora

soggetti a salti e arresti, orgogli e terrori,

costretti a fare algebra dell'aritmetica,

sbagliando i più elementari teoremi,

contenti, in fondo, di fallire gli schemi

essenziali, le basi, i calcoli, le proporzioni,

felici, nonostante tutto, di sprecare un'altra

estate fingendo di studiare, per poi tornare,

assetati, al primo giorno di scuola.









   ***











   Il non amore



Forse proprio quando comprendi meno

scorgi una chiave, ed è consolazione

sapere che niente si apre, nessuno

squarcio di luce; di nuovo tace il corpo

e solo il tempo si muove assieme al sangue

intravisto in fotogrammi ingurgitati

assieme a un piatto di cibo che scordi

prima di averlo metabolizzato.

Tra foga e vomito, fame a apatia,

diventi silenzio che strozza

la parola, passato che non sai scacciare.

E perdi il senso dello sguardo, la mano,

la voce che si insinua nella gabbia

e la frantuma, bocca spalancata,

schiuma amara del non amore.





   ***







   Il resto è silenzio



   E' muto l'alfabeto del mondo,

la stanza mima pace malata,

bambola di ceramica ferma

in un sorriso quieto, letale.

   Ma arrivi tu. Già salendo

le scale mischi urla e respiro,

risa e parole. Arrivi tu, e prima

dell'acqua da bere avida come

un naufrago, viaggiatore di lande

inesplorate, chiedi una radio,

una canzone.

   Arrivi tu: nell'abbraccio gioioso

e feroce dei corpi, c'è il suono

del vinile, solco che si fa corpo,

materia, memoria di armonie

eternamente vive.

   C’è musica se ci sei tu. Vorrei dirti

Che c’è armonia anche in tua assenza,

nell’eco del ricordo o nel respiro

dell’attesa. Ma non sono abbastanza

romantico, non sono abbastanza poeta.









   *  *  *







   Il privilegio



   La neve negli occhi, un gelo

senza tempo. Si trovò a pregare,

l'esploratore, con ciò che gli restava

delle mani strette tra i denti

dell'inverno. Provò a congiungerle,

a farle combaciare, labbra unite,

fantasma di un sorriso. Ringraziò,

il viaggiatore, ilare e compunto

come il giorno della prima comunione:

volse gli occhi al cielo, per quanto

gli concesse la pressione dell'aria,

e pregò, sì, per la prima volta

in vita sua. Con parole brevi come

il fiato che gli usciva a stento

dalla gola, elevò un inno di lode

a chiunque avesse donato

la morte alla vita.

  Con tale pensiero posò la testa

di lato sul cuscino della valanga

che lo avvolgeva in un lenzuolo

di marmo frantumato. Posò

la testa docile di bambino

sul guanciale ricoperto di bianche

figure, fiabe aperte alla luce

della fine. Posò la testa senza più

sognare, se non il sogno

vero di una frase, parole di sale

e miele, un verso

semplice ed estremo:

"Se Dio c'è è perché si muore".











   ***















Sezione III

“Il tempo salvato”







L’arte è un antidestino.

 A. Malraux, La voix du silence









   Il tempo salvato



  Da luoghi di sangue senza più calore,

anime morte si affollano ai margini

di centri commerciali aperti a miraggi

di saldi all'ottanta per cento, davanti

ad un Caronte senegalese parcheggiatore

precario nella pupilla ferita di ferocia,

incerto tra il riso e la nostalgia

di una terra di bellezza

assolata. Ti chiedi, da solo, se sussiste,

se respira ancora, il tempo salvato, strappato

con la vita alla vita.

È assurda la risposta, non la domanda,

non la follia che ti spinge ad alzarti prima

della luce cercando il senso, la parola,

scoprendo che è bello cercare di nuovo

per riuscire a vedere il troppo

che è stato tradito nell'atto sventato

del tradurre, rendendo sacra una pena

che nessun dio può amare, se non

nel silenzio insensato che nega anche

l'ipotesi di sé, la possibilità di essere

immaginato come ente inesistente.

Non c'è bellezza nel dolore, non c'è

santità. È sana la fatica, il sudore

che lava la fronte. La sola vera morte

è il soffrire. Ed è già putrefatto, dentro,

chi lo loda, da qualunque pulpito,

con qualsivoglia intenzione.









   ***











   Il mondo non ha angoli



Ci ritroveremo, mi hai detto,

in qualche angolo del mondo.

Ma il mondo non ha angoli,

ogni punto equivale a tutti

e a nessuno, la curva del tempo,

ferro, nebbia, graffio, veleno,

traccia di sogno, linea di una mano.

Ci ritroveremo, certo, e ci accorgeremo

che è gravido di altre carni, di altri

semi, il ventre del destino.

Ma ancora avido, feroce,

partirà lo sguardo verso un lembo

di pelle, l'occhio, il collo, il braccio,

il seno, e di nuovo sarà immagine

del mondo, spazio di luce agibile,

abitabile, l'attimo in cui, ridendo,

ci diremo che non è possibile.



   ***















   Il grado zero



Arriva un momento in cui tutto ciò

che rimane è attesa, sospensione,

grado zero della vita. Diventa colpa,

allora, perfino muovere le dita

della speranza, dirigere il cuore verso

l'idea di un cielo chiaro, arioso, un morso

di pane, una briciola, un sorso residuo

di vino.

Ma più colpevole e più tenace è

l'udito fisso sul legno della porta,

inchiodato, crocifisso, appeso

a un battito, un tocco

incerto, furtivo: forse il tonfo,

l'incedere cieco del destino.







   ***







C’è qualcosa di folle nell’estate







C’è qualcosa di folle nell’estate,

i suoni si impiccano a corde invisibili

oscillando nell’aria come occhi sbiancati

come lingue spezzate in ghigni irridenti.

C’è qualcosa di falso nell’estate,

come una vela lontana bevuta

dalle labbra dell’orizzonte,

come un silenzio sdraiato

in mezzo agli sghignazzi.

                                                       

C’è qualcosa di vero nell’estate,

il sangue di un’illusione

che corre verso un luogo e un senso,

la sorpresa di un’onda anomala e leggera

perlata di un riflesso di speranza.







Il vino più sapido, amore



Se questi versi colassero da soli

miele aspro di incoerenze, potrei stringere

dita e parole di vento, grappoli turgidi

di seni, gocce chiare, istanti stillati

uno ad uno su prati di girasoli

che sbarrano al cuore sentieri

di tempo.Potrei, ma l’ocra è intrisa, ora,

di geli ottusi di ragioni. Il veleno

è penetrato nei tessuti,

gli acini si serrano in solchi

sottili, rugginose riflessioni.

Tocca a noi, ora, trovare il modo,

la maniera, distillare in una carezza

brividi, sguardi, anni smarriti,

sospesi tra ciò che è stato  e ciò che sarà.

Tocca a noi cogliere il graspo essiccato,

sfiorarlo con mani tremanti, ansie

ancora vive, sensibili

ai sussurri della brezza.

Tocca a noi stringerci con tenera 

violenza, sentire il cuore

dentro il petto  e non sapere

a chi appartiene, se è il tuo, il mio,

quello del mondo, della vita che ancora

urla, ride, respira, fuori e dentro noi.

Tocca a noi premere, aderire, pronunciare

nel profumo dei capelli frasi mai dette,

verità nuove, paure antiche da annientare,

specchi da fissare negli occhi

senza frantumare

sorrisi sinceri di realtà.

Il vino più sapido, amore, è quello stillato

da pieghe grumose, ogni sole,

ogni tempesta che sapremo trasformare

in liquido sorbito

giorno dopo giorno, sorpresa

ignota a agende e calendari;

essere ancora assieme

dèi terresti e fragili

umanissimi e immortali.







  *  *  *





   ***









   Perla che rischiara le ore



   Finalmente ritrovo poesia.

Come un'antica compagna che mi chiede:

"Come sei oggi?" e pretende una foto

e io la ignoro, lei che mi ha salvato,

nutrendomi, nascondendomi, uccidendomi

della sola vita che mi è concesso

respirare.

Ritrovo poesia, nel libro di un amico

perduto nella nebbia, un incontro affannato,

un saluto alla cerimonia di un premio,

pesce fuor d'acqua, lui, io aria, fantasma

senza castello, cervello spento, occhio

orientale, fessura accecata di paura.

Finalmente ritrovo poesia, nel libro senza

figure, quasi senza copertina: un azzurro

smorto e un insetto stilizzato schiacciato

da chissà quale piede. Eppure, leggendo

di luoghi del mondo rincorsi dal tempo e

da infinito timore, ritrovo poesia, e

non so dire se sia gioia sentire dentro

la stessa frenesia di quando rubavo

la donna al mio compagno di banco.

Ritrovo poesia, in un libro che parla di felicità

lontana. Ed è dono e beffa osservare, dove

non so vedere, la presenza tenace

di un'amarezza che oggi, parola

per parola, si apre a una speranza

che non pretende niente, se non la necessità

di una perla che rischiara le ore,

notte calma  che brucia, splendore senza luce,

aria, suono, musica, acqua, uva.







   ***









   Squame



In questa notte d'inverno,

fra strade di gelo, nel fosso

circondato dai viali pedonali,

saltano i pesci. Guizzano

nell'aria colorando il silenzio

di fuochi, riflessi, voli lievi,

risa di gioia.

Sono gli stessi pesci, scuri,

sporchi, nativi del fango, che

poche ore prima erano presi

di mira dai petardi

dei bambini di buona famiglia,

ben vestiti, annoiati da lusso

e moine.

Mi guardo le mani. Attendo,

impaziente, le squame.





   ***







Sezione IV

“Il tempo dell’attesa”





Vivi ogni giorno come se avessi vissuto tutta la tua vita proprio in vista

di quel giorno.

            V.V.Rozanov, Foglie cadute









   Il tempo dell'attesa



E' ancora il tempo dell'attesa,

sospende il battito tra attrazione

e paura; l'aria, elemento vitale,

alimento dell'esistere, si fa

rischio, pena. Andare alla finestra,

alla luce del sole, dovrebbe essere impulso,

palpito nelle vene. E' diventato

tempo, riflessione: nell'istante in cui

ragiono sul bilancio del dare e dell'avere,

la distanza tra il divano e il davanzale,

si siede la pena al mio fianco, ed è

gentile, quieta, quasi gioviale. Mi copre

con un abbozzo di abbraccio la vista

del vetro assolato. Resto seduto,

comodo, stordito. Il gelo nella carne

è carezza, la stanchezza ora è dolce:

sapere di non volersi muovere,

restare alla portata delle sue dita.

Ma c'è un raggio più tenace, diretto

da trame di mura e di rami.

Arriva a sfiorare la gamba, l'avvolge,

la scalda. Riesco ad alzarmi, a camminare.



   ***















   Nel mistero



Una preghiera per chi non trova

la macchina lasciata nel parcheggio

sotterraneo, per chi passa la sera

sotto le finestre delle case altrui

cercando una musica e una voce

affine al suo passo, per chi muore

per la donna sbagliata,

sapendo che sarebbe la sola in grado

di dargli qualche spicciolo di vita.

Una preghiera per chi non sa come

pregare, dove guardare, dove dirigere

lo sguardo; una preghiera

per parlare di niente, dando fiato

allo spazio di chi percorre

il pianeta in punta di dita, e tutto

ciò che spera è inciampare sopra

una lama fatale, o scoprire che l'acciaio

serve per tagliare il pane, e le dita

per camminare sulla pelle.





  ***









   Fliegender



Uccidili tutti, Fliegender,

uccidi il rumore e la furia

della loro ignoranza vociante,

spiazza l'attesa beata di banalità

parlando una babele di idiomi

antichi e moderni, codici miniati,

chiavi di accesso a paradisi

sul confine tra giorno e sera,

crepuscolo di dèi assenti

con cui continui a dialogare. Stordisci

la loro fiducia nell'identità del corpo

e della parola. Illudili che tutto

sia uno scherzo, perfino il dolore,

la divinità della pelle sfiorata da mani

candide e impure. Uccidili tutti,

con un sorriso che nega loro occhi

e cuore, concedendo solo una mano

forte, e un pensiero altro, che resiste.

Anzi no, non ucciderli: lasciali in vita,

vegeti e urlanti, a coltivare latifondi

di gramigna e vino agro di tracotanza.

Lasciali campare, così che si senta

risuonare forte, nel silenzio, l'eco

lacerante del divario, la distanza,

la differenza. Anche la mia.



* * *





   Una siepe di rose selvatiche



Siamo un capriccio del tempo,

schermo esile alla pioggia e al sole,

legno di croce, linee orizzontali

senza scarto, senza profondità, la voce

del ladrone salvato in extremis,

o la battuta sconcia di un Barabba

eroe della gente a lui affine.

Ci è concesso di guardare in basso,

il sangue sui chiodi arrugginiti,

i piedi sgraziati, la terra

assetata. E' questa la beffa, la sfida:

perdere sangue ad ogni passo,

ogni sogno, e generare, nonostante

questo, un sentiero, proprio quando

spezzati, recisi, rideremo con la luce

nei visi di chi ha capito che non c'è

soluzione, se non nell'immagine

di una strada, una siepe di rose selvatiche

colta con la coda dell'occhio.





   *   *   *





        

     La creta indocile



L'uomo è l'unico animale che

non apprende nulla senza un insegnamento:

non sa parlare, né mangiare, né camminare.

Allo stato di natura, sa solo piangere.

È amara verità, tra scienza e metafora:

il pianto è proprio dell'uomo, è nel suo

patrimonio genetico, nel bilancio

del destino. Nasce sapendo di dover piangere.

Viene dichiarato vivo, dall'ostetrica, solo

quando lo sente gridare la pena del respiro.

Ma è uno sbaglio, un errore inveterato:

il primo pianto è solo la prova dell'esistenza

biologica, simile a quella di una pietra,

un'alga, una radice di gramigna.

La vera nascita, la vita vera, ha luogo

nell'atto di negare il piano prestabilito:

nell'istante della prima gioia, il riso

universale, quando il petto esplode

in una galassia d'amore.

Sono nato con te, nell'istante in cui

ti ho vista e ti ho amata. La data

anagrafica è un ricordo, un'ipoteca

lontana, un mutuo con la vita che non

finirò di pagare. Ciò che fa di me

un uomo è l'avere imparato, superando

limiti e barriere, l'arte di sorridere,

plasmando, con dita goffe ma sincere,

la creta indocile dell'esistere.            



   *   *   *









   Una lettera



Cosa potrebbe accadere

se spedissi adesso una lettera

al mio unico amore? L'amore

cieco, testardo, il più fedele

e bastardo dei cani, quello che

ti lecca le mani con affetto

e intanto digrigna i denti pronti

a spezzare le ossa e il cuore,

così, per istinto vitale.

Le scriverei che sono vivo,

nonostante la rabbia a cui

nessuna distanza riesce a fare

da vaccino. Le direi che il pensiero

di qualche mattino dorato di luce

e di quiete con il tempo

e con la sorte è ancora suo,

suo soltanto.

Le allegherei una rosa,

una foto, un'icona. Lei strapperebbe

la pagina con dita calde

come il suo sorriso,

rosso come le labbra che solo

la rosa bacerebbe, prima di essere

ridotta in coriandoli vermigli.

È questo il senso, sono

quei petali rossi i figli che lasciamo

su questa terra che ci accoglie serena,

come fossero caduti dal più bel

ramo in fiore. Forse è questo

l'errore che ci spinge ancora, ridendo

e morendo, a cercare.



   *   *   *





I capricci del vento



Non ho saputo ascoltare il silenzio.

Ora sento sibilare rapida la vita.

Sprecare il tempo, ora, è la sola rabbia,

la sola pena. Distinguere sguardo

da sguardo, parola da parola, imparare

che ogni passo lascia una traccia,

un'impronta. Forse il suono

del silenzio ci parlerà dell'ombra

che ci danza a fianco, lieve come

un alito, duro come un tormento.

Sarà bello smettere di voltare

la testa di scatto, inutilmente,

come un gatto che teme la sua

immagine riflessa in uno specchio.

In un istante di quiete sapremo

condividere il tratto di strada

che ci è capitato in sorte, con

le gocce di rugiada di un mattino

o con un ramo esile, contorto,

che sa leggere nell'acqua e nell'aria

i capricci del vento.



   *   *   *







   Strada per il mare



Ho guidato per strade di sole,

tra incroci ciechi e mercati affollati

di gente frenetica o immobile, occhi

bianchi, crudi,  in mezzo alla carreggiata.

Ho attraversato lande brulle e boschi

di lupi e faine, ho visto migliaia

di gambe e schiene percorrere i loro

sentieri con zaini e borse colme di vite

aliene. Ho visto cartelli stradali

creare circoli per goffi millepiedi

su sentieri accidentati in cui sono

sbucato imprecando ad ogni tonfo,

pregando solo per l'uscita, il sollievo

dell'asfalto ritrovato.

Ora, dopo giornate di guida, i miei

passeggeri mi urlano, esultanti, che

laggiù, oltre il profilo delle colline,

si intravede il mare.

Sorrido, senza farmi notare, al pensiero

che adesso, a me, dello splendido panorama

azzurro-verde prezioso come smeraldo

non mi importa niente. Mi godo

un alito quieto di brezza, e la speranza

che a breve potrò sdraiarmi nella frescura

a sognare montagne innevate, oppure,

chissà, il colore sfumato di un altro

oceano, un mare distante, solitario,

forse inesistente.







 *  *  *





 

Il testo mi deve dire qualcosa che io non so.


Io scrivo solo perché non ne conosco lo scopo;


se lo sapessi smetterei.


                                        


da "La biblioteca delle voci", 2006

















       Con sollievo



Lasciamo che il testo trovi


la sua strada, l'oggetto, il messaggio.


Niente sarà sprecato, non un gesto,


un sorriso, uno slancio, un pensiero


dedicato a lei che, ferma di fronte


al portone serrato del sogno, ci dava


appuntamenti per il giorno sbagliato,


ridendo, giocando a scardinare il tempo


che giocava a dadi, distratto, muto.


Lasciamo che il verso trovi


per sé e per noi la sua strada, il suo senso.


Tutto, perfino il nulla, ha corpo nella parola,


e la sua assenza di sostanza è pietà,


misericordia nella tortura che ci consuma,


il "foco che ci affina".


Forse, magari nel regno del sonno, quando


sarà pace il silenzio e prato il respiro,


ci sarà detto dove conduce il sentiero


e diverremo noi il cammino, saldo, sicuro,


ignaro di abissi di tornanti. Tutto avrà scopo,


e ogni interrogativo irrisolto sarà arte


arcana di filosofia astratta e carnale, volto


incrociato lungo un viale, quando


è quasi sera, e, con sollievo, non si è certi


di distinguere buio e luce, falso e vero.









  


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