giovedì 2 agosto 2012

Giuseppe Sciarrone, in memoriam


13 POESIE
di
Giuseppe Sciarrone
Percorso lirico
a cura di
Paolo Bassani



Nel luglio del 2000 ricevetti l’ultima lettera del poeta e scrittore Giuseppe Sciarrone da Messina: una lettera che sarebbe divenuta il commosso addio di un caro amico. Vorrei citarne soltanto un breve passo: “So che Lei, mio dolce caro e fedele amico, non si dimenticherà di me. A Lei soltanto, io -che sono così riservato- ho affidato il ricordo delle mie sofferenze fisiche e psichiche”.Ebbene, oggi -proprio per onorare la memoria di Sciarrone- sento il bisogno di divulgare qualche sua poesia. Per tale ragione è nato questo piccolo opuscolo. Incontrai per la prima volta la poesia di Sciarrone nel 1978, quando membro di giuria del concorso letterario nazionale “Il dono” promosso dall’AVIS, fui colpito dalla sua composizione (completamente anonima) che terminava con i seguenti versi: “Non attendere uomo, che vacilli/ la fiammella del tempo,/ che i vivi siano morti/ ed i morti risorgano”. Si può dire che da allora è nata la nostra amicizia, vivificata da un costante rapporto epistolare durato fino alla sua morte, avvenuta nel 2000. Custodisco quelle lettere religiosamente come preziose pagine di altissima poesia e, nondimeno, come espressione viva di umanità e di un’amicizia che mi ha profondamente onorato. Sciarrone è stato dunque per me un grande amico, diventando un vero generoso Maestro. A Lui, la mia poesia deve davvero molto. Le presentazioni e note critiche dedicate ai miei umili versi sono state la testimonianza più ambita. Ma non soltanto per questo ho deciso di ricordarlo. Io credo che il valore di Sciarrone poeta e scrittore, nonostante le centinaia di primi premi vinti in concorsi nazionali, non sia sufficientemente noto. Purtroppo, gran parte della sua produzione, è ancora inedita. Mi auguro che il tempo, se è galantuomo, possa fare finalmente giustizia, dando a Sciarrone il merito che gli spetta nella storia della letteratura del Novecento italiano. Questo umilissimo opuscolo vuole esserne d’augurio.

Paolo Bassani


PAROLA


Voce d’occulto strazio,
estrosa,
delirante,
peso di lava nera sopra il cuore,
ebbra intossicazione.
PAROLA,
risacca spenta
d’onda alta e sonora
sopra il mio capo.
PAROLA:
che senso ha raccogliere
la tua corolla di spuma
nell’oceano dell’essere
e lanciarla
sopra l’ala del tempo?
Ho costruito in tanti anni
una povera trama
di spazi vuoti.
Chi sono stato?
Zeus, Prometeo, Spartaco?
la lancia d’oro d’un dio
spendente in una nuvola?
un titano confitto su una rupe?
o lo schiavo impazzito
che sbatte contro il muro
le catene divelte?
o piuttosto una lacrima
ch’ha voluto soltanto
accendersi di luce?
PAROLA:
mite colomba, occulta
nelle mistiche volte
d’un tempio gotico,
fuga azzurra di nuvole
sull’immoto silenzio
della pagina bianca
dove tutto il mio sangue è una preghiera,
una notte che attende
l’acqua chiara del fiume delle stelle.



COME UNA VOLTA


Una bianca fiorita
di pace stanca
s’affonda nel cristallo dei tuoi occhi.
Sei ancora, madre,
quella di sempre, dietro la mia porta,
in un esule trepido silenzio.
Un tremulo tintinno
d’un cucchiaio che batte
sulla tazzina colma di caffè
mi dice che comincia un altro giorno,
che tu sei viva
e che sei qui, come una volta, ancora,
bianco aroma dell’alba
dopo le lunghe notti
di veglia sopra i libri
in attesa del pane
così scontato, faticato, amaro.
Come una volta, quando questo figlio
era un globo iridato nel tuo sogno,
un petalo di fiore sul balcone,
proteso verso il vento.
Questo tuo figlio coi capelli bianchi
sulle spalle ingobbite
e con gli occhiali spessi di cristallo
sempre chini sui compiti di scuola.
Tutte, madre, le stelle del tuo cielo
si sono incenerite sul torpore
di questi segni rossi e azzurri, uguali,
che traccio sopra i fogli.
Fra i tuoi occhi pietosi e questa mia
plaga inerte di vita,
l’implacabile tempo e lo squallore
di corrosi orizzonti.
Madre, eterna fanciulla,
con le braccia cadute
su fulgenti mosaici di speranze.
Madre che forse ancora,
come una volta,
inventi sul mio capo
girotondi di nuvole,
spandi odore di resine
e risusciti il volo
di farfalle accecate
nel rassegnato carcere dell’anima.
Madre che scagli ancora
dalla vergine luce
di lontananze ignote
il tuo sasso d’amore
sulla nebbia dei vetri del mio sonno,
angelo muto dietro la mia porta
con la piccola tazza di caffè
che trema fra le mani.



LA BUONA TERRA


C’è qualcosa di te fra queste zolle
addentate dal morso
di gramigne e di cardi,
qualcosa che respira,
che batte, che s’affanna
per tornare alla luce.
Un bottone di rame
con l’àncora della Marina,
affiorato dall’erba,
mi ridesta il tuo sogno
tra le brume dell’onda,
sopra l’angusta tolda
intrisa di salsedine,
sotto le grandi stelle
di stranieri orizzonti,
sogno lungo, tenace,
d’un ritaglio di terra
dove il tempo s’allenta nella pace
di più certe promesse.
Era la “buona terra”
(così tu la chiamavi),
la terra salda contro i venti, amica,
ancestrale richiamo del tuo sangue.
Quando fu tua, la prima volta,
ti togliesti le scarpe e vi passasti
a piedi nudi, silenzioso, assorto,
come chi scioglie un voto
sulle lastre di marmo d’un santuario.
Così tornasti contadino
nella china degli anni
e tornarono le pergole, i roseti,
i filari degli alberi,
i fiori del miosotis, il sambuco.
Tornò l’amore antico dello sguardo
sulle gemme dischiuse, la carezza
trepida delle mani
sulle primizie tenere.
Le vidi, le tue mani,
che ogni giorno segnavano una croce
sui bordi del calendario,
più scarnite, più pallide,
annaspare una volta dietro i vetri
in un ultimo addio.
Chi sa, padre, se sotto queste zolle,
tra i roseti selvatici, in un guscio
di lumaca corroso,
si nasconde una goccia
del tuo stanco sudore
pietrificato in gemma!
Ma sui solchi distrutti è solo l’ombra
delle tue mani inquiete dietro i vetri
della finestra ora, per sempre chiusa
sulla tua “buona terra”.




QUANDO LE OMBRE PASSANO SUL MURO


Quando gli antichi dei
reclinano la fronte
sul granito dei templi, e sale il treno
col suo tremito lungo
nell’assorta
agonia della luce,
una folata d’ombre ricompone
immagini sul muro:
passano lente ondate di millenni,
cadono senza suono
come foglie tra l’erba.
Sulla calce corrosa ora è una fuga
di saette d’uccelli,
un ansito di passi, un trasalire
d’improvvisi ritorni, il filo bruno
d’un’antica sorgiva dissepolta.
E tra i cocci dei vetri sopra il muro
posa l’ala d’un sogno di colombe.
Tutto resta sospeso tra due voli,
coagulato nel giro d’una breve
metamorfosi d’ombre,
nel segreto
d’una vita celata
come i muti riverberi del cuore,
del gran cuore del Sud.
Poi ritorna la notte,
la mendica velata con la sua
fonda coppa grondante di silenzio
e i segni misteriosi delle stelle.
Poi s’alza dietro i monti
la gran torre del sole
sfavillante di specchi, e il vento scuote
i singhiozzi sommessi del carrubo.
Il muro ridiventa una barriera
alta compatta immota
sull’argine d’un fiume
risucchiato dal greto.
Sullo schermo di luce, il buco nero
d’un uscio che si schiude,
una sedia, uno scialle,
ed un vecchio che guarda,
come in un pozzo vuoto,
nei solchi delle mani
una cenere d’ombra




LA RACCOGLITRICE D’OLIVE


Sei lì dall’alba, povera formica,
incrostata alla piaga sanguinante
dell’antica miseria,
la tua fronte canuta sulla terra,
una pezza bagnata sulle grinze
della nuca riarsa,
una pena di secoli negli occhi.
Annaspano tra l’erba,
storte radiche nere, le tue dita;
trema l’urna ricolma
delle tue palme
sulla bocca bavosa
del sacco ancora vuoto.
Eran così le mani di tua madre
poste in croce sul petto,
sotto il cielo
stupefatto di niente,
le sue logore scarpe rabberciate
con filo di ferro,
accanto al letto, presso il canterano
colmo di stracci.
Era così, ferrigno, nel tramonto,
il sacco delle olive:
una gola d’imbuto avida, nera,
sotto il torchio dei giorni.
Eran così le albe,
i meriggi di fuoco,
i gomitoli avvolti di silenzio
delle donne in ginocchio presso i tronchi,
l’ali delle farfalle irrigidite
nella morchia dell’olio,
il santino di carta sopra il cuore.
Era così la fame, senza artigli,
una sentenza millenaria, amara,
come il pane scontato,
una scaglia di sale sulla piega
livida delle labbra,
e la vita una trottola aggrappata
alla china, ronzante sotto il volo
alto degli angeli.
Ora così, da sempre,
lenti i ragni risalgono, la sera,
lungo i fili, sui rami.
Ora così, da sempre,
sola rimane, occulta, inaccessibile
dietro un fruscio di lamine d’argento,
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sull’albero ormai spoglio,
come nuda parola di Giustizia,
l’ultima oliva
che nessuno ha raccolto.



LA PASSEGGIATRICE DEL PORTO


Piccola donna
del volto scarno e duro
che, a tarda notte,
ancora,
sulle lastre del molo
stai aspettando qualcuno.
Gli urli delle sirene
delle navi che arrivano
sono alti sopra il tuo capo:
non ti chiedono nulla,
non ti danno nulla.
E a te nulla più importa
di chi parte,
di chi arriva,
di chi resta,
di chi sputa il suo scherno
sulle ginocchia livide,
sui tuoi fragili stinchi di bambina,
di chi squarcia ancora
le ferite dell’anima.
Anche gli angeli passano alti
nelle notti d’inverno, sopra i moli:
non stendono la mano
a coprire dal vento
quel falò di giornali
che arde fra due pietre
e accende d’un riverbero di fiamma
le tue unghie laccate
sulla borsetta vuota.
Ora non hai più forza
di passeggiare.
Come tralcio estenuato
il tuo gracile fianco s’abbandona
sul palo d’un lampione.
Alto, freddo, lontano
è quel globo di luce
fasciato dalla bruma.
Anche tu sei lontana:
una scoria di vita
ove s’accoglie
la stanchezza delusa
di tutta questa nostra
povera carne umana
aggrappata nel tempo.

Per la tua muta sofferenza, avvolta
in fredda solitudine lunare,
ti amo.




UN VOLTO SOPRA IL VETRO


Sale il treno del Sud
trainato da lunghe
tese funi di vento, e tutto fugge
da una solitudine all’altra.
Nell’aria dissanguata della luce
cadono l’ore anonime del sonno:
solo, a tratti, il sussulto
d’uno scialle doppiato sopra il petto,
la lama illividita d’un pensiero
che scende dalla fronte
sulle labbra riarse di calcina,
il tremito sommesso
d’una bottiglia vuota.
E tu vegli, arenata nel profondo
silenzio dei tuoi occhi.
Immota si ritaglia sopra il vetro
la stremata dolcezza del tuo viso:
palpita, si sbiadisce, s’avvicina,
balza incontro dai tunnel,
arde con voce d’anima.
Di là da quello specchio è la gran notte,
la bufera ritmata di ferraglie,
i monti che corrono,
ali nere che inseguono,
l’eco insonne, straniera,
di porte che si chiudono.
E tu vegli. Il tuo viso
è il fiore della zagara
fermo su un fiume fondo di memorie,
è la bianca preghiera mormorata
tra i propilei d’un tempio,
il respiro dell’erba, nella sera,
sopra i tetti d’ardesia,
la ràdica del cuore
che s’affonda impaurita nei chiodati
giorni del Nord
pieno del suo presente.
E’ la chiusa corolla
d’ingoiati singhiozzi sulle frane
dei sentieri del sole.
Ed ora, nella favola dell’alba,
tutto il treno del Sud
è il pallore d’un vetro
ovattato di brina, col tuo volto
di fanciulla poggiato sulla mano.



LA STANZA ACCANTO


Forse,
nella stanza accanto,
c’è un calendario al muro
che nessuno più sfoglia,
un fiore che appassisce,
l’ostinato respiro d’un profumo
sul guanciale del letto sprimacciato.
Forse
c’è un vecchio, solo,
con uno scialle nero sulle spalle:
quello che si fermava per le scale,
gradino per gradino,
con il fiato spezzato
e ti guardava
mentre salivi in fretta.
Forse,
muto, inchiodato alla finestra,
quell’emigrato lacero
col suo tanfo di treno e di sudore,
che ti sorride timido e, impacciato,
ti domandò qualcosa.
Forse
quella donna dai grandi
occhi scuri cerchiati di viola
che ti si fece incontro
dal profondo
del corridoio buio,
la vestaglia discinta.
Sempre,
nella stanza accanto,
c’è un brandello di pena
appeso a un gancio
dell’armadio serrato,
una sedia in un angolo che aspetta,
l’ingorgo d’una lacrima che anela
d’essere luce
sopra il tralcio fraterno d’un sorriso.
Mai
tu varchi la soglia
della stanza accanto,
e rimangono sole
le gocce della pioggia
sulle lastre dei vetri
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nella gelida nebbia allucinata
dello squallido albergo della vita.




CIMITERI DI GUERRA


Forse per un’occulta
volontà d’espiazione
a voi basta soltanto
dare il povero senso della vostra
misura umana
a una landa di cenere sepolta
di giovinezza lampeggiante d’oro,
ricomporre lo strazio
delle nostre ferite
nell’illusoria pace
d’un gelido reticolo di tombe.
Nessuno sente il tremito convulso
fendere le nostre ossa
quando suona la tromba del silenzio,
nessuno mai discende nel profondo
dell’attesa dei morti
a dirci il nome e il volto
dell’ultimo caduto.
Strappate le nostre croci
e lanciatele insieme
contro il cuore del tempo:
un distante bagliore d’ali bianche
d’innocenti colombe crocifisse
si poserà sul mondo
e il vortice della vostra storia
sarà lo spazio vuoto
d’un occhio allucinato.
Spezzate le nostre lapidi
la sonora menzogna delle epigrafi
sopra i bronzi ed i marmi.
Ammucchiate le nostre ceneri
in un cumulo solo
al centro della terra.
Rompete l’urna del pianto
di tutte le madri:
si schiuderanno i semi
del nostro sangue
nella rorida luce d’una nuova
primavera d’amore,
e il sigillo dell’ultima parola
impietrita sulle nostre labbra
si scioglierà nel vento
in un fraterno palpito
di mani che si stringono.
Soltanto allora nella nostra notte
discenderà la pace delle stelle
e, pietosa, la morte avrà il sorriso
dolce d’una fanciulla
con un fascio di rose sopra il seno.



CANTO DI COSE SPEZZATE


Tutte le cose spezzate
hanno radici d’aria,
foglie vive di luce,
si tengono per mano
sul balcone del tempo
e cantano.
Ho sentito una corda di violino
gemere nella polvere,
un occhio di bambola
nel vischio dell’asfalto
imprigionare melodie di cieli,
cori azzurri di nuvole:
un frammento di specchio
riflettere il sorriso d’un bambino.
Anche i giorni spezzati
hanno un suono:
tutta la vita è il suono
d’una lastra di vetro che si rompe
dietro il nostro cammino,
ogni istante.
Anche il silenzio è il suono
d’una cosa spezzata:
un pianto, una preghiera,
uno squillo di gioia
che battono nel fondo
d’una campana di cenere.
Suoni segreti passano sul mondo,
si calano in ogni angolo,
scrosciano in una nuova
ricomposta armonia.
Basta sol che tu tenga
la tua mano serrata sopra il cuore
e ascolti.
Il Nulla è il cerchio oscuro
di chi non ha mai amato.



L’ULTIMO ASINO


Ora è scesa
l’ancora del silenzio
sulla ruggine viscida dei vicoli.
Non s’ode più, nel vento della sera,
l’ansito del tuo fiato sotto il peso
di fascine fruscianti sopra i muri,
il tonfo del tuo raglio sulla quieta
danza delle colombe.
Te ne andasti anche tu,
così,
come se ne va l’ultima favola
nell’infinito murmure dell’onda
d’una conchiglia fossile:
anche tu, senza addii,
senza fardelli grevi di memorie,
senza annusare l’erba
ai margini del sentiero,
senza voltarti indietro,
senza chiedere nulla,
senza aspettarti nulla.
Te ne andasti anche tu,
un mattino,
col mansueto stupore
della tua testa pendula,
col ronzio delle mosche
sul tremito più stanco
della tua schiena piagata,
tra il cinguettio dei passeri
e il respiro
bianco dei fiori.
Nessuno si fermò a guardare
i tuoi garretti gonfi,
i solchi della frusta sul tuo petto.
Nessuno ti chiese quante volte
tu cadesti in ginocchio sulle pietre.
Nessuno raccattò
quelle cose che lasciasti,
povere cose
stritolate dal tempo:
un sonaglio di bronzo,
gli sfilacci d’un fiocco,
il ferro d’uno zoccolo lucente,
la tua cavezza logora.
Qualcuno ti sospinse,
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con un ultimo calcio, nella gabbia
d’un metallico carro,
e fu l’estremo addio.
Ma ci sarà, romito fra le stelle,
ci sarà pure un angolo d’Eterno
per il pianto nascosto dei tuoi occhi,
per il sangue che l’uomo
t’ha rubato ogni giorno.



UN VOLTO DIETRO L’ANGOLO


Lo vedi scivolare nella notte
come il vento di luce
dei fari d’una macchina
in attesa sull’angolo.
Lo senti, quello sguardo,
appuntarsi e fissarti sotto il sole:
è un frammento di vetro che s’accende
nel mosaico di cenere
dei tuoi effimeri giorni disseccati,
una spina di fuoco che trafigge
la compatta crisalide
della tua solitudine,
la rivolta d’un attimo
contro il tempo e la morte.
Ma tu corri, e la fretta
ti pugnala alle spalle.
Corri nel solco oscuro
della tua storia,
lacerando la vita.
E non sai che quel volto,
nascosto dietro l’angolo,
sei tu stesso
che ti guardi smarrito dal mistero
del Cristo immemoriale,
sanguinante
in un anfratto muto del tuo cuore.



JESUS REVOLUTION


“E’ terribile cadere tra le mani
del Dio vivente” ( S. Paolo, Ebr. 10, 31)
Cade la Tua parola
risoluta e innocente
come fuoco di folgore
sulle nostre certezze,
torchia la nostra argilla,
ineffabile appello nella notte
dell’asfittica nebbia.
Essere in Te, Signore,
è sgranare la vita
dall’incastro del tempo,
correre sotto il vento
della Tua primavera,
sentire nelle vene
il gorgoglio rovente del Tuo sangue,
scavare nel macigno l’acqua viva
che libera dal peso
le ginocchia stroncate,
affilare la punta che trafigge
l’astrale solitudine del mondo.
Essere in Te, Signore,
è spezzare le funi d’ogni ormeggio,
è drizzare la vela
nella furia dell’onda,
è tradurre il Tuo Verbo
nell’incendio d’un canto,
è aprire il nostro cielo
a un torrente di rondini,
è vivere, ogni istante,
la tremenda
salvifica rivolta del Tuo Amore.




INDICE



CANTO DI COSE SPEZZATE
CIMITERI DI GUERRA
COME UNA VOLTA 
JESUS REVOLUTION
L’ULTIMO ASINO
LA BUONA TERRA
LA PASSEGGIATRICE DEL PORTO 
LA RACCOGLITRICE D’OLIVE
LA STANZA ACCANTO
PAROLA
QUANDO LE OMBRE PASSANO SUL MURO
UN VOLTO DIETRO L’ANGOLO 
UN VOLTO SOPRA IL VETRO

1 commento:

  1. Conobbi Giuseppe Sciarrone nel 1980, a Taranto, in occasione del premio "Città dei due Mari", che lui vinse per l'inedito, io per l'edito. Ci rivedemmo poi ancora una volta ad Ischia, quando vinse il "Maria Francesca Iacono" (ero presidente della giuria che esaminò - come sempre- gli elaborati in forma anonima) e per un certo periodo abbiamo intrattenuto un' amichevole corrispondenza, scambiandoci lunghe lettere (ne conservo ancora alcune) in cui trattavamo tutti gli argomenti che ci stavano a cuore ed anche i problemi che ci affliggevano. Poi la corrispondenza si interruppe, per colpa mia. Ma sempre Sciarrone è rimasto vivo nel mio pensiero. Quante volte avrei voluto telefonargli, anche prima del 2000, ma mi ha trattenuto sempre il timore che non ci fosse più, che dall'altro capo del telefono arrivasse una ferale notizia! Tra l'altro egli era originario, per parte materna, del comune di Serrara-Fontana, nell'isola d'Ischia.
    Ma basta con le malinconie. Giuseppe Sciarrone è stato poeta di grande spessore, con alle spalle una notevole formazione classica (era professore di latino e greco nei licei) che ha agito con molta discrezione sulla struttura non solo formale delle sue liriche. La sua colta sensibilità e la profonda umanità hanno costituito l'humus di un mondo poetico e di un prodotto artistico che -sono d'accordo con Paolo Bassani- avrebbero meritato ben altre fortune letterarie.
    Pasquale Balestriere

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