martedì 4 settembre 2012

Paolo Polvani: "Riflessioni sulla poesia"


Paolo Polvani:
"Riflessioni sulla poesia"


Ho sempre pensato che la poesia, e l'arte in generale,  svolgano a livello sociale quella che a livello individuale è la funzione del sogno: libera  pulsioni segrete, svela ciò che è razionalmente inconoscibile, scarica tensioni, è specchio non solo di paure, angosce, terrori, degli incubi che salgono dalla nostra società e dal nostro mondo, ma anche di desideri, tensioni, traguardi, felicità. E' immaginabile una società senza musica, teatro, cinema, letteratura, arti figurative, poesia, danza ? Ugualmente difficile pensare a un essere umano privo di ansie, aspirazioni, immaginazione. La poesia dà vita e voce ai fantasmi che si agitano dentro di noi. Esiste forse un mezzo più efficace per parlare d'amore, di sentimenti, della letteratura, della poesia, della musica ?. E che dire dell'angoscia della morte, della incertezza del futuro, della pienezza del desiderio ?
Soltanto l'arte, che pure è sostanzialmente artificio, finzione, può avvicinarsi alla verità delle esperienze umane, renderle riconoscibili, condivisibili, nell'arte ognuno di noi può riconoscere le vibrazioni che si muovono dentro, riconoscersi e accettarsi, accettare anche quanto di negativo, di oscuro si muove e si agita in noi. Ci sono funzioni della scienza che aiutano a conoscersi, svelano meccanismi profondi della nostra vita,  ma ci sono romanzi che valgono molto più di qualsiasi seduta psicanalitica, molto più di qualsiasi trattato. In questa funzione sociale si colloca naturalmente l'aspirazione a immaginare, prefigurare un mondo migliore, e quindi a combattere le ingiustizie. L'energia che arma la mano del poeta è lo sguardo. Non credo che un poeta abbia lo sguardo esclusivamente rivolto alle proprie dinamiche interne, un poeta allarga il suo sguardo alla condizione umana, trova nell'altro il suo specchio e direi il suo movente. Quindi trovo connaturata nell'agire poetico l'aspirazione a combattere le ingiustizie. Renderle oggetto di creazione poetica, evidenziarle, denunciarne l'esistenza è un primo passo nella lotta contro le disparità, gli abusi, le distorsioni del potere, la mancanza di rispetto nei confronti dei diritti umani basilari. Quando si parla del male di vivere mi viene spontaneo pensare a queste situazioni, l'evidenza di abitare un mondo fatto non più a nostra misura, dove il rispetto per la vita dell'uomo e della natura vengono sistematicamente cancellati e offesi per esigenze dettate dal profitto, da un potere che si fa cane da guardia delle esigenze del profitto. Certamente ci muoviamo in un contesto complesso e difficile. Un altro aspetto del male di vivere è la consapevolezza di essere finiti,limitati, sapere che la nostra vita ha una scadenza, l'incertezza del dopo. Sono risultanze persino banali. Penso tuttavia che non sia possibile soffermarsi soltanto sul male di vivere. Esistono infiniti motivi per esaltare anche il bene di vivere. In una mia cosa ho scritto che per me la poesia è un'effervescenza di parole che certifica la gioia di stare al mondo. Trovo che i motivi per gioire, seppure in un mondo complicato e spesso avverso, siano infiniti e abbiano ragioni anche più impellenti rispetto al male di vivere. I sentimenti, i desideri, l'amore, le infinite bellezze del mondo costituiscono valide motivazioni all'origine dell'atto poetico. E inoltre la consapevolezza della scadenza a breve dovrebbe costituire un motivo in più per godere della passeggiata. Io non credo che l'atto creativo possa sopportare regole che costituiscano un limite alla potenziale sconfinata libertà espressiva, e non attribuisco valenza normativa a quei piccoli espedienti tecnici che regolano il ritmo, la musicalità, la disposizione delle parole, esistono come possibilità stilistiche, come varianti di percorso operativo. Tuttavia penso che esistano delle soglie minime di accesso  alla poesia. Oggi molti scrivono poesia, ma pochissimi la leggono. Uno dei criteri selettivi mi sembra questo: non si può presumere di scrivere poesia senza in parallelo leggere poesia, dei classici ma soprattutto dei contemporanei, senza un costante confronto col linguaggio usato dagli altri poeti sarà difficile munirsi delle credenziali minime per essere poeti. Una volta, fino a pochi anni fa, il confronto avveniva per mezzo delle riviste che costituivano un filtro non sempre rigoroso ma purtuttavia un filtro. Oggi tra siti e blog si assiste a un'esplosione di vitalità creativa, che comunque nella quasi totalità dei casi non arriva a essere poesia, si ferma alle soglie di un tentativo maldestro, spesso anche fastidioso, di gesto espresso in forma e con modalità che vorrebbero appartenere alla poesia e invece si fermano al livello del puro sfogo esistenziale. Non ci si può improvvisare maratoneti, senza un duro e costante allenamento non si può sperare di arrivare al traguardo. Con la poesia il discorso è identico, non ci si può improvvisare, senza impegno e allenamento, senza un'adeguata preparazione atletica, senza curare la propria alimentazione, sarà impossibile anche solo varcare le soglie della poesia. Il primo impegno è costituito dalla lettura, che fornisce le basi minime, la ricchezza lessicale, la molteplicità di vedute, di prospettive visuali e linguistiche, soprattutto l'esercizio respiratorio basilare, che è l'atmosfera stessa della poesia, l'ossigeno che ne riviene, la capacità del cuore e dello sguardo di abbracciare ogni cosa. Oltre naturalmente al confronto con le diversità tematiche, metriche, stilistiche, che arricchiscono la propria base  di esperienza. Ma poi è necessaria anche un'adeguata coltivazione del sé, non è indispensabile che un aspirante poeta accumuli sapere, ma che si coltivi sì. Senza un'adeguata curiosità delle cose del mondo, delle persone, senza uno sguardo animato da sincero interesse, senza un'adeguata alimentazione in termini di musica, di arte, ma soprattutto di vita, di relazioni, di esperienze, ci si limiterà a compiere sterili e inutili peripli intorno al proprio ombelico, ma questa circumnavigazione dell'io, se non sostenuta da un adeguata cultura, nel senso di coltivazione, di alimentazione, di spirito di ricerca in senso lato, si rivelano quasi sempre fastidiosi esercizi di narcisismo. Infine io penso che la linea di demarcazione tra puro sfogo verbale in forma di aspirazione poetica e vera poesia si riscontri nella consapevolezza nei confronti del linguaggio. Il poeta utilizza un materiale particolare: le parole possiedono un enorme potenziale e vanno usate con criterio. Solo chi impara a conoscerle, e manovrarle, e forgiarle, e piegarle, a estrarne la giusta energia, a indirizzarle nella direzione voluta, può chiamarsi poeta. Altro aspetto discriminante tra poesia e sfogo verbale è costituito dal duplice versante dell'autocompiacimento e dell'insoddisfazione. E' probabile che un atteggiamento di ricerca del continuo miglioramento, tipico di chi non si accontenta del primo risultato, possa portare a una crescita del livello estetico, perché c'è sempre una parola più incisiva, più adatta, più aderente alle intenzioni della poesia, c'è sempre una prospettiva più esatta, un'angolatura confacente, insomma il lavoro del poeta è una gran fatica. L'autocompiacimento regala una soddisfazione momentanea ed effimera, è vero che le parole ci rispecchiano, che spesso ci innamoriamo   di quello che scriviamo. Per la poesia niente di più dannoso dell'innamoramento. Si perde qualsiasi opportunità di miglioramento. Scrivere poesia è paragonabile allo sforzo di chi vuol fare scoccare la scintilla strofinando due legnetti, ci vuole determinazione, forza, pazienza, adeguata conoscenza delle parole, perché strofinare le parole per far scoccare la scintilla della poesia è impresa quantomai difficile. In definitiva la poesia è un prodotto dell'uomo creato per  altri uomini. Renderla indigesta o commestibile e nutriente dipende esclusivamente da noi.

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