venerdì 11 gennaio 2013

N. Pardini: Lettura di "Nessuno può restare" di G. Rescigno

 
Gianni Rescigno: NESSUNO PUO’ RESTARE. Genesi Editrice. Torino. 2013. Pp. 120. € 15,00

 

Dalla terra al cielo con l’amore nell’anima e gli occhi al mare

 

 
Nessuno può restare sempre

tra terra e mare ad aspettare.

Bisogna lavare l’anima

con le lacrime ed asciugarla

alla tramontana di febbraio.

 
 
Nessuno può restare. Questa la poesia da cui trae il titolo la silloge. E fin dall’inizio il poeta ci mette di fronte al motivo principale che rende compatta e organica l’opera. L’attesa di un giorno, di un’ora, di un tempo; forse l’attesa del tempo che ci è concesso; del redde rationem di un percorso; del destino di un’anima incisa da vibrazioni di mistero, di una soluzione lasciata ad una tramontana che porta messaggi di essenziale connotazione per l’oggi e per il domani: nessuno può restare. Un incipit poeticamente saturo di vita e di morte. Di quella morte che ingombra di sé ogni minuto del nostro esserci. E di una vita di cui il poeta per primo riconosce l’inaffidabilità, avendone provato in prima persona il dolore per sottrazioni e per delusioni. Anche se queste defaillances esistenziali vengono ripagate, in queste poesie, da un saldo ancoraggio a valori etico-civili e religiosi che si fanno fondamentali nella storia di Rescigno. Questa è la sua poesia che, pregna di perché, di abbandoni, e di ritorni aggrappati all’azzurro, si distende su un tracciato fatto di pièces brevi e concise, in cui l’articolazione di una metrica essenziale sa lasciare spazi ad endecasillabi dalla bellezza eufonica per uscite dal sapore sinfonico: “Si va avanti così/ sempre col desiderio d’amore./ Si cerca di trovare un’altra mano”. E il dire, con i suoi slarghi ed azzardi ipersintattici, cerca di affiancare e contenere, sempre, gli slarghi di un’anima tutta volta ad una confessione ora dolce, ora risentita, ma pur sempre libera e spontanea. Sono tutti qui, in queste trame, quei sentimenti, quelle riflessioni, e quello spleen, che determinano il sale del dire lirico-memoriale, erotico-confidenziale, e strettamente umano: la solitudine, il mistero, la speranza, l’amore, la curiosità, lo stupore, il sogno e l’ancoraggio all’immenso potere del Creatore. Sono questi i cardini della silloge. Il  mistero. Sì!, quel senso di smarrimento di fronte al tutto ed alla pluralità del sentire che accompagna la coscienza della nostra debolezza di esseri umani. Ma anche la coscienza della nostra forza in quanto esseri pensanti, esseri che, nati con questa grande dolorosa dote, riusciamo a proiettare la nostra parte più vicina all’immortalità in un azzurro che non è facilmente perscrutabile. E c’è questa coscienza della caducità, c’è ben chiara nelle parole e nel substrato, delicatamente diffusa, dell’opera. Ed è umano che ci sia. Ed è anche propedeutica al mistero. L’uomo sa di questa sua condanna: quella di misurare la sua pochezza con la grandezza incommensurabile dell’eterno. Ha scritto Blaise Pascal, considerando la posizione dell’uomo nello spazio e nel tempo:
 
<< Quando  considero la breve durata della mia vita, inghiottita nell’eternità passata e futura, l’esiguo spazio che occupo, e che posso vedere, inabissato nell’infinita immensità di spazi che ignoro e che non mi conobbero, io sono atterrito, sono sorpreso di essere qui piuttosto che altrove; giacché non vi è motivo al perché qui anziché là, oggi anziché domani. Chi mi ha messo dove mi trovo? Per ordine e istruzione di chi mi sono stati assegnati questo posto e quest’epoca? L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi terrorizza>>.  

E tutto, spesso, assume questo aspetto di caducità e di fragilità: la vita scorre veloce come un fulmine e ti ritrovi addosso la vecchiaia con tutto il bagaglio delle tue preziose memorie:

 

<<E poi la vecchiaia

cancella tutto ciò che sei stato:

occhi mani passo.

Non ti riconosci.

Stai sulla battigia

su una panchina

all’ombra d’un pino

a guardare colui

che ha la tua voce

e che ti sveglia il cuore.>>

(E poi la vecchiaia. Pp. 80).

    

E tanti i silenzi a raccogliere perplessità, dubbi, incertezze; a seminare terreni su cui investire tutte le nostre meditazioni sulla vita, i suoi dilemmi; e vibrano le corde del cuore, danno gli imput alla mente che vive e rivive le immagini, fino ad accelerare i battiti cardiaci in quella selva ricca e generosa di motivazioni che è l’esistenza. E tanti di questi impulsi sono dettati da un amore che è sempre vigile e trascinante con la sua presenza-assenza. Storie e fatti vissuti con la compagna di una intera vita sono rimasti a covare nell’anima. Azioni semplici, quotidiane - tradotte da Rescigno in motivi di alta creatività -  rinascono ingrossate a reclamare la loro validità, la loro essenzialità, ogni ora, ogni attimo:

 

<<Aprile portò la morte

tra fiori di pèschi e di ciliegi.

Ne parlavi sempre con dolcezza:

un giorno giungerà   

il riposo che mi spetta.

E lei la morte

per lasciarti il soriso sulle labbra

s’inchinò davanti alla tua stanchezza.>>

(Aprile portò la tua morte Pp. 87).

 

<<Del nostro dialogo vorrei

che continuasse il prosieguo

nelle ore di sonno.

 

(…)

 

Andando per questa strada

Cerco di metter i piedi

Sulle tue orme.

La tua ombra mi attende

Ad ogni miglio di mistero…>>

(Nel nostro dialogo. Pp. 60)-

 

Momenti di grande lirismo quelli dedicati alla donna amata. É nel dolore, o meglio, nel dolore rivissuto, che si generano le condizioni dei ritorni e degli abbracci, degli impulsi umanamente più caldi per una poesia che arriva con estrema generosità. E forse è proprio questo mondo immaginifico di sogni, e slanci onirici a creare una storia nuova, fattasi presente. Sì!, perché il sogno è vita, e la vita è sogno. Rifugiarsi in certi angoli. Riposare l’anima in alcove edeniche di grande rendimento umano ed ultra/umano, qui, è motivo di una poesia ricca di un patema che si confessa con giusta misura senza scadere in lamentatio “degenerative”:

 

<<Un altro profumo ha la notte.

Un’altra bocca ha la parola.

 

(…)

 

Un altro profumo ha la tua anima

e l’edera della tua speranza

avvinta al riposo della mia.>>

(Profumi canzoni respiri. Pp. 89).

 

<<I tuoi passi si uniscono ai miei:

Trottano per i viali deserti,

non hanno né bocca né parola.

Sono soltanto il nostro rumore,

eco di desiderio di un sogno

che domani cadrà sull’asfalto

all’ora del primo squarcio di luce.>>

(Rumori di passi. Pp. 90).

 

Una luce che equivale a realtà implacabili che sopraggiungono a tradire voli impossibilmente possibili. Sì!, c’è questa dualità nella poesia del Nostro, che la rende nuova: da una parte quella realtà, dall’altra spazi traboccanti di rievocazioni oniriche:

 

<<Tanti cieli ho avuto

quanti i miei giorni.

E le notti? Una sola.

Sempre con lo stesso

sole del giorno

e una imparagonabile luce:

quella del sogno.>>

(Tanti cieli quanti i giorni. Pp. 91).

 

Ed è la solitudine ad accompagnare il poeta nel suo percorso terreno e poetico. Quella solitudine/raccoglimento che non è mai fine a se stessa, ma che porta tutto l’amore che non hai mai avuto:

 

<<…Infine sai: nessuno ti vede

Sei soltanto la tua anima

In giro per il mondo.

 

Infine capisci: incontrerai l’ora

a cui non hai mai pensato

e ti porterà tutto l’amore

che non hai mai avuto.>>

(Con le cose che non hanno parola. Pp. 92).

 

D’altronde dobbiamo vivere e pensare nel tempo e con il tempo. E misurarci tristemente con la sua sproporzionata dimensione. Con le sue ore. Ma sono le ore che non si contano a determinare un’eternità in cui saremo spersi, per il poeta. Proprio su quelle ore resta a meditare. Sì, perché a noi mortali sfugge il senso di quel sempre il cui presente non ci è concesso afferrare. La nostra mente non possiede la facoltà di recepirlo: è precario e inconsistente; è fugace come il nostro esistere. Ma la speranza esiste. C’è, non è chiusa nel vaso di Pandora; è a lei che si affida il Nostro, pur aggrappando il tutto alla memoria o ad un sogno, incognito e a volte doloroso. E anche se la morte è lì, fra le onde del mare, sempre in agguato:

 

<<… Origli, ascolti la  morte:

sale le scale delle onde.

E quando riappare il sole

ti tocchi gli occhi

per sapere se ancora vivi.>>

(Acqua di mare. Pp. 36).

 

se ci avviciniamo all’azzurro - a Lui - è più facile rivelare le proprie debolezze ed è più semplice allargare il cuore e piangere:

 

<<… E allora liberi

al migrare delle nuvole

i sogni dal pensiero.

Uno soltanto

ti si avvinghia all’anima.

Non parte.

Ti sussurra il nome

e ti sorride: sono la speranza.>>

(Avvicinandoti a Lui. Pp. 93).

 

É così che Rescigno riesce a staccarsi dai dolori della vita. Dal terreno. Portandosi dietro, però, in un viaggio verso il cielo, le cose più preziose del suo mondo. E vola con nell’anima Dio, l’impronta dell’amore, e con negli occhi il mare.

 

<<Partirò con un pugno

di terra in tasca

e il mare negli occhi.

Lì non hanno terra i campi

e sono senz’acqua i mari.>>

(Il mare negli occhi. Pp. 82).

 

<<L’anima: terra di domani.

Soltanto il vomere di Dio la solca.>>

(Il vomere di Dio. Pp. 83).

 

 

Nazario Pardini                                                           10/01/2013


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