venerdì 17 maggio 2013

NAZARIO PARDINI SU: FIAMMELLE TREMULE, DI ROSARIO AVENI



Prefazione
a
Rosario Aveni: Fiamme tremule

(In questo bosco di salici piangenti
c’è ancora luce all’ombra del crepuscolo)




 (…) Da una scala a chiocciola
salgono e scendono
ataviche inquietudini
ceri
che lentamente si consumano
fiamme tremule
ardenti nell’ombra
sorvolano cime
valli e pianure
per divenire cenere
quando vien sera.

Poesia nuova, morbida, libera, quella di Aveni, con azzardi iperbolici e metaforici di grande efficacia figurativa, che cercano di traslare o avventurare impulsi emotivi dal reale a una sfera dove Eros e Thanatos, sensibilità e coscienza sociale indicano altre soluzioni. Soluzioni, spesso, agognate o solo considerate, o fatte concrete per alimentare l’ispirazione; ma umane, anche, troppo umane, per non raggiungere e scuotere la sensibilità del fruitore. Per non segnare il bianco e il nero, lo sporco e il pulito, la notte e il giorno di un andare inderogabile della vicissitudine umana. E il polemos degli opposti – ci insegna Eraclito - non solo costituisce la dialettica del divenire, la dicotomica fusione dell’essere e dell’esistere, ma anche il terriccio fertile della poesia.  
Mi piace esordire con la citazione testuale riportata, perché ritengo che vi sia il nerbo della poesia del Nostro. C’è qui la vita, l’immaginazione portatrice di invenzioni creative, c’è la filosofia della poetica dell’autore, c’è la natura, la memoria, l’dea del tempo fuggevole e ingannevole. Ci sono insomma tutti quegli ingredienti che costituiscono il leit motiv di questo poema – credo giusto definirlo così, per la compattezza della plurivocità ex abundantia cordis -. Fiammelle tremule destinate a spegnersi al primo tremore dell’aria, per lasciare ceneri, o avanzi impoveriti, o resti disanimati della vita. Sono figure che lentamente si spengono. Ci sono valli e pianure battute in altre primavere, poi fattesi memorie. Sono segmenti d’animo che trovano la loro consistenza in corpi sfumatisi nel succedersi dei giorni.
Una poesia di suoni, di disarmoniche armonie, di vincoli empatici, di sub/stantia coinvolgente per figure, fatti, problematiche, impatti emozionali, che, da una riflessione strettamente individuale, si espandono, con risultati oggettivanti, in uscite accorate di taedium vitae, di male di vivere; in un’esistenza che urla, anche, le sottrazioni, le assenze di un mondo omologante, di una società dove l’individuo è annullato a scapito di un tutto informe e, spesso, in astenia. Quel male di vivere simboleggiato da Montale con le immagini del “rivo strozzato”, della “foglia accartocciata” e del “cavallo stramazzato”; frutto di disperazione esistenziale e di una concezione della vita come impenetrabile mistero, condanna alla solitudine:Passano lustri/ come baleni/ crediamo d’essere aquiloni/ invece siamo barche/ senza remi/ alla deriva/ verso isole remote/ abissi/ di nostalgia e solitudine” (L’inganno del tempo).  
E cosa è la poesia se non che frammentazione di una realtà data all’anima a che la ricomponga con i suoi vincoli emotivi? a che la offra nuova, dopo lunga decantazione, ad una confessione nutrita di verbi ora pacati, ora tristi, ora freschi, ora dolci; paralleli, comunque, ai battiti del cuore? e cosa è la poesia se non che fare del quotidiano un motivo di slancio verso azzurri che si slargano oltre la siepe? sogni? annullamenti del nostro essere in spazi smisurati? Ma il sogno fa parte della vita. Anzi lo è. D’altronde è umano, è strettamente umano, vivere da mortali con l’animo rivolto all’oltre. Oltre il tempo. Oltre la memoria. Oltre la parola. È un nostro privilegio, ma è anche un perpetuo tormento. L’inquietudine dei limiti. La coscienza della terrena precarietà. E il Nostro la vive questa inquietudine, la fa sua con grande pathos ed energia rievocativa. E montalianamente il suo discorso si fa spesso acerbo, melanconico, mai, comunque, nichilista. Perché c’è qui l’amore per la vita, per la sua sacralità. E se il poeta si ribella a certa consuetudine, a certa anomalia esistenziale, lo fa proprio perché la ama; incertezze ci sono; ci sono i dubbi sull’esserci, e sui perché; sulle memorie e il loro destino; sul Cielo, e la sua forza. Ma il Nostro vorrebbe tanto credere, e ne chiede la possibilità  proprio a quel Dio che, forse, è a capo del suo vivere:       

Signore
anche se non credo
vienimi incontro
persuadimi che dell’ultima cena
qualcosa rimane
Presto sarà inverno
il sole ombra di luce
e il cuore avrà il passo
lento nella neve
Ma la fede
è un sublime effluvio
sa di primavera
Rinasceranno i fiori
nuovi colori
sui miei occhi senz’iride
berrò alla tua fonte
e il cuore finalmente
pulserà veloce (Una prece).

Perché spera sempre che una fede, sì, una fede, un credo, una realtà interiore, insomma, si avvicini il più possibile alla certezza; si impossessi di lui. E contribuisca, in qualche modo, a svincolare il suo essere dalla coscienza del dubbio e della precarietà del suo stesso pensiero; a incanalarla in rive più solide per contenere corsi d’acqua ora calmi, ora ripidi quanto il fiottare del suo sentire. Un sentire mai pago, e sempre in cerca di una verità. Ma il travaglio è lungo; l’incertezza è grande; la rabbia dà sfogo a inquietudini spossanti:

Obesi sacerdoti
cospargono di cenere il capo dei fedeli
consacrano l’ostia a un dio mai nato
Togati soloni
sputano bestemmie su scranni di giudici
ostentano retorica immobili in terra
La messa finisce
sul dorso d’una rupe
A Sparta un tempo
vi gettavano gli storpi
Giovani i veri saggi
nudi e trasparenti
vomitano sentenze
acuminate come strali
ma corrono spediti
senza toga
snelli
consci di peccare (Peccato originale).

Sono gli affetti familiari, che fungono da alcova rigenerante, a riportare un lirismo quieto, meditativo, e di un certo spessore etimo-creativo: le figure del padre e della madre:  

Padre
quando verrà il momento
chi mi darà la forza
di non vederti più scrivere
a capo chino?
Siedi con me
alla locanda del tempo
Ritroverai amici perduti
noi figli
tua moglie nel fiore degli anni
Un oste beffardo
esigerà il conto del destino
e quel po’di vino insieme bevuto

Madre
non si può ricomporre quel vaso antico
essenze di dalia
fumi d’ebano
Dimentica
C’è nuova luce
all’ombra del crepuscolo (L’airone e la colomba).

Sì!, una recherche questa silloge; l’autore è continuamente alla cerca di se stesso; del suo vivere, e dei tanti perché della sua/nostra esistenza. Perché vivere è chiederci e interrogarci. E i quesiti esistenziali sono tanti; sono le risposte che mancano. Da lì quella malinconia sotterranea che permea di sé tutta l’opera; malinconia che rende il dettato poetico vicino a tutti noi per la sua intrinseca fertilità. Sì!, un terreno fertile a produrre fiori destinati a flettersi al primo autunno. Perché è la vista che, umanamente miope,  non riesce a prolungarsi più di quello che può offrire il terreno. Anche se sboccia nei giardini del reale, per decollare verso arditi approdi, che tentano di convertire in gaudio le lacrime, sono sempre approdi davanti ai quali si estendono mari senza confini; mari che ingollano i nostri tentativi, come gli Oceani le acque, pur limpide, di piccoli ruscelli. Ma a tante perplessità possono sopperire memorialità e stupefazione. Una stupefazione che il poeta riesce a provare, con animo vergine e innocente, di fronte alla bellezza di questo mondo. E mi piace pensare che tutto possa cospirare a che l’autore incontri, anche in un deserto, fiori profumati al posto di vetri in frantumi; e pensare che non sia più destinato ad errare senza oasi né meta: condanna di noi esseri umani:

… Nel deserto
non crescono fiori
ma vetri in frantumi
Li calpesto
a piedi nudi
insensibile al dolore
nomade
destinato a errare
senza oasi né meta (Miraggi).

E al tema del tempus fugit, della sua inesorabile corsa, del suo annientamento totale di tutto e di tutti; al tema tanto sentito della fugacità dell’attimo, dum loquimur fugerit invida aetas, del dolore che cresce per lo strascico che lascia dietro:

  
Passano lustri
come baleni
crediamo d’essere aquiloni
invece siamo barche
senza remi
alla deriva
verso isole remote
abissi
di nostalgia e solitudine
Il tempo acuisce il dolore
delega al cuore
vuoti da colmare
ma questi d’obbedire
non ne vuol sapere (l’inganno del tempo).

l’autore sa alternare momenti in cui, frugando nei meandri del memoriale, o prospettando immaginari future, dà vita ad affetti di grande resa lirica:


Figlio del vento
ai brividi delle tue carezze
affiderò domani
Crescerai
coi miei stessi occhi
Tua madre un po’sfiorita
si agita nervosa
copre un piatto in tavola
in attesa che rientri
mentre io, zappatore
affondo colpi al suolo brullo
aneliti
di ciò che non è stato
Possa rovesciarsi il cielo!
Lo arerò come campo di grano
lascerò cadere acre sudore
sui dorsi rivoltati delle nuvole (Figlio del vento).

Sorellina,
ricordi?
Intonavamo ingenui canti
nenie di carillon
filastrocche e sogni
Ora siamo
uomo e donna
lontani anni luce dalla purezza
Cosa rimane
di un fiocco rosazzurro
candeline spente
dei primi compleanni
ciocche di capelli
chiuse in uno scrigno
foto ingiallite coi genitori e i nonni?
Giorni lontani
Non torneranno (Hansel e Gretel).

È qui che la poesia del Nostro riesce a toccare vette di una fluidità poetica pura e convincente. Ma la dicotomia della nostra storia è perenne. È la linfa del suo consumarsi. Da una parte la memoria dolce e gentile, poeticamente struggente, anche se mai decadente; dall’altra la realtà con tutti i segni del suo logorio: candeline spente, foto ingiallite, giorni lontani. E il poeta lo vive a pieno questo sentimento d’inaffidabilità; questo senso dei limiti che lo chiudono in spazi ristretti. E anche se il tempo è cagione di dolore, si aggrappa a quel tempo, nel tentativo di ridare vita ad una storia che si sta perdendo, questo è il suo convincimento, fra le brume degli autunni. Sono tante le immagini che vanno e vengono; sono maschere di cera a celare visi; si consumano lentamente come tante Fiamme tremule per lasciare cenere all’ora di sera:

… Maschere di cera si rivelano
senza mani per celare i visi
Da una scala a chiocciola
salgono e scendono
ataviche inquietudini
ceri
che lentamente si consumano
fiamme tremule
ardenti nell’ombra
sorvolano cime
valli e pianure
per divenire cenere
quando vien sera (Quando vien sera).

Veramente vicini all’esistere questi versi, carichi di sera, di energia interiore, sorretta da un dire elastico, da una parola schietta, leggera come piuma al vento, che si adatta ad ogni effusione partecipativa. E d’altronde uno degli scopi principali del poeta è quello di trovare il verbo, di cercare la parola. E non è facile farne una perfetta combinazione con l’anima. Si sa che questa è tanto profonda da richiedere corpi imprevedibili per la sua concretizzazione. Corpi inimmaginabili. Per questo è la natura ad aiutarlo con le sue fughe, con le sue vicinanze, con le sue albe rigeneranti, o le sue sere terminali; è in lei che Aveni travasa il suo essere, per zupparlo nei profumi e nei colori di un panismo allusivo. È così che più si avvicina al ritratto della sua essenza. Ed è così che il linguaggio si fa finemente allegorico, finemente traslato per aiutare il poeta, con funzione analitico-psicologica, a scalare le vette ripide dell’anima umana.      
E anche se dalla lettura complessiva emerge una chiara visione della vita come percorso di dolore e disillusione, in linea con le tematiche dell’ermetismo, del realismo, e post-realismo della letteratura contemporanea; e anche se la parola stessa è frutto di questo disagio nei suoi irritamenti contro le convenzioni, o nei suoi accostamenti ad una poetica di riflessiva inquietudine; tuttavia è nella poesia che il poeta sembra cercare un’àncora di salvataggio; è a lei che crede; è a lei che affida il suo taedium affinché lo gridi al mondo, e lo perpetui, forse, anche foscolianamente; è con lei che pensa di sopperire a quell’attimo sparuto in cui si sente condannato. E non è detto che quel suo ancoraggio  non gli apra lo sguardo ad una sorgente rigenerante di luce:    

(…) Vengono da mondi sconosciuti
itinerari in cieli limpidi
cantano felici
Al tramonto mi chiederanno
di volare insieme a loro
lontano
Sole che vieni
inebriami di pace
alza antiche vele
e se gli occhi saran chiusi
spalancali per sempre
al tepore dei tuoi raggi.

Nazario Pardini                          17/05/2013

Nessun commento:

Posta un commento