venerdì 11 ottobre 2013

N. PARDINI: LETTURA DI "APRILE DI FIORI", DI M. G. FERRARIS




Recensione
a
Maria Grazia Ferraris: Aprile di fiori
 Montedit Edizioni. Melegnano (MI). 2013. Pp. 50

Un’avventura che il poeta definisce:
“C’est un rêve: il vaut bien le vivre”



M’affascina la natura, - è poesia, -
- un dio vi spira, - dolce e lusingante.
Ma lotta è in me, ché esser non vorrei
d’un inevitabile nevrotico idillio
l’ingenua autrice: spingermi vorrei
al di là dell’idillio…, per attingere
dal drammatico nostro quotidiano
la chiave del vivere insensato… (Poesia).

È qui la poetica di Maria Grazia Ferraris, in questa sua fusione coi colori e le forme floreali di cui Natura ci fa dono. Ma non si vuole fermare assolutamente ad un semplice ritratto dillico-elegiaco; vuole andare oltre; da lì prendere spunto per cercare armonie, musicalità perdute, che cedono il passo al sogno: “come di sirena il canto/ fascinoso s’abbatte smemorato/ sullo scoglio arido della vita”; vuole dire di sé, del suo essere, dei suoi pensieri, delle sue memorie, delle sue contrarietà verso un mondo che sembra perdersi e fare di tutto per rendere un deserto il suo cammino: “Dimentica le tue guerre che producono solo/ deserto: il deserto che tu chiami pace./ Accarezza questa natura, che consola” (Pace). 
         Plaquette di 36 poesie interamente dedicata alla Natura, ai fiori, alle sue più preziose perle, inanellate l’una con  l’altra da un  filo lucente in una collana di attraente rarità: un luminoso filo che si fa leit motiv della silloge: l’amore per il verso che sboccia in sepali, in petali, in corolle tanto vicini, nella loro varietà e nel loro rapporto terra-cielo, al dipanarsi delle vicissitudini umane. E tutto scorre in maniera duttile e morbida, gentile e graziosa, silente e graffiante, ma pur sempre limpida come l’acqua di un ruscello che rimanda il brillio dei candidi sassi dai fondali. Sì, l’autrice fa trasparire i delicati abbrivi della sua più profonda interiorità, cristallizzandoli in profumi, colori, in ossimorici azzardi, anche, ora primaverili, ora autunnali, ora spavaldi, ora fugaci, ora ferali a significare la bellezza, la precarietà, il mistero e il dolore dell’esistere. E c’è in tutta la diegesi dell’opera quella tematica confidenziale, quella filosofia di tensione orfica, volte a sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Ma il tempo c’è con il suo fagocitare senza requie, con la sua sottrazione del bello e del brutto; e la Nostra è cosciente della sua rapacità che si manifesta in una dicotomica visione fra il polemos degli opposti di sapore eracliteo. Polemos che condiziona, d’altronde, il succedersi dell’umano procedere, se il fulgore di tali perle, il loro gioco aereo di parole alate, il loro profumo inebriante, la loro gioia bambina, il loro caparbio fiorire, se lo stravagante brillare dei loro colori si sfrontano con il misterioso e inquietante elevarsi dei pinnacoli gotici dei cipressi ; o se si sfrontano con lo “ Stupore oscillante tra il drammatico/ e il grottesco, ilare e liberatorio,/ l’hortus poetico di fiori daliliani”, o con l’urlo muto alla morte della dalia, che tanto sanno di via crucis, di ultimazione e di redde rationem. Ossimorica dualità del tempus fugit. E la parola segue attenta e puntigliosa, colle sue espansioni, col suo rattenersi, o col suo combinarsi di perspicua sapidità disvelatrice, la sicurezza del ductus poetico. Una parola che denota un’assidua frequentazione dell’ars dicendi. E la Natura non è certo trattata come gioco a se stante, o come arcadico ozio letterario, ma vive, umanamente vive, fino a invadere gli spazi sottostanti del pensiero. Sì, si ravviva di memorialità, di stupefazione, di slanci emotivi che si traducono in una vis creativa di grande impatto esistenziale. Dacché la Nostra non si limita a descrivere, a rappresentare, ma fa sentire continuamente la sua presenza accanto al mutare dei giorni e dei luoghi, delle immagini ora giovanili, ora superbe, ora dimesse che richiamano i segmenti di una storia. E tutto evidenzia una grande scientia florum di timbro lucreziano - tibi suavis daedala tellus summittit flores - ma anche e soprattutto una capacità versificatoria di un simbolismo lirico da idillio leopardiano: ardore allusivo di metafore con giochi sapidi di allegorie. E c’è la dalia “fra i vibranti seducenti gelsomini” con il suo urlo muto. E ci sono i Papaveri a Micene:

Papaveri dalle grandi corolle rosse,
dal cuore nero, urlanti nel vento che li culla.
Rosso: il colore del dio della vendetta.
Micene ancora sanguina al ricordo.
Papaveri rossi, rossi… di sangue! (Papaveri a Micene).

Le Ninfee:

Ninfea bellissima, di fredda perfezione,
tutta superficie, senza radici vere,
bianca e immobile, casta e algida,
fiore di acqua, giglio di morte:
la metafora sei di tante vite di donne,
belle e inutili, egoisticamente perfette,
senza radici (Ninfee),

in cui la Ferraris non disdice un appunto a questo esibizionismo fatto solo d’immagine in tempi di disvalori.
         Ed è superbo, poi, perderci in giardini segreti, incantati di magnolie lucide, carnose, morbide e levigate debordanti dai cancelli chiusi che richiamano la bellezza, il mistero, il sogno, la felicità e ri/conducono ad antiche primavere; ad alcòve verso cui la Nostra tenta una fuga di edenico riposo, pur con il rammarico di occasioni sprecate:

… le ultime interrogazioni, poi l’estate adolescente.
Più sognato che realmente e felicemente vissuto.
La felicità era in quel risveglio, in quello stupore,
in quell’attesa di non so che… Non lo sapevo
e il ricordo ingenuo ha un retrogusto amaro,
quello delle giovani occasioni sprecate (La magnolia).

Perché si sa che la memoria riporta a galla, anche ingigantite dal tempo, immagini tanto forti che gridano la loro esistenza per ritornare a vivere.
         Ma è nelle sei pièces di Le stagioni delle viole che la Ferraris riesce a raggiungere note di tale intensità lirica da tradire quel tale Krònos che tutto pretenderebbe di distruggere. Un canto che la poetessa affida alla pagina con intenti da dolci illusioni foscoliane. Chiede persino aiuto ai grandi poeti del passato, ricorre ai loro versi più incisivi da cui prendere spunto e dimostrare quanto valga la bellezza per la memoria umana; per il sogno; per la vita. E non è certo sfoggio di sapere, ma indice del grande spessore culturale della Nostra. Una cultura, che, decantata nel suo animo, torna a vita verniciata di un sentire fresco e rinnovato. Un mélange di poesia, mito, natura e ricordi che, sapientemente fusi fra di loro, offre una resa lirica corposa di significativi richiami fonico-allusivi: la favola di Zeus e la violetta (“fece spuntare tra l’erba piccoli fiori dolci e profumati”), la commozione di quei racconti ri/vissuti (“Il primo amore della mia vita”), l’incanto della Disputatio di Bonvesin della Riva (“il fascino della bellezza quieta del piccolo fiore”), o quello del paesaggio fiorentino primaverile del Poliziano. È il gioco delle immagini che lascia indenni, accovacciate nell’anima, quelle gioie che tornano più lucide nei nostri autunni. E il tutto narrato senza pesare, in maniera sciolta e en passant, come quando si confessa in poesia un nostro qualsiasi naturale sentimento: “O violae… molles et violae, Veneris munuscula nostrae…/ quae vos, quae genuit tellus?”. Oh i suoi petali di velluto!  “Vos semper amabo”. Anche il latino stesso assume una connotazione sentimentale fresca e pura, di acqua sorgiva carsica che talvolta scende nel sottosuolo, talvolta scorre in superficie, fluisce limpida e soprattutto toglie sete. E non si può di certo soprassedere a quel “mazzolin di rose e di viole” di memoria leopardiana: la felicità dell’attesa. La grandezza della semplicità nel poeta dei poeti:

… leggevo presa, e mi dimenticavo che la poesia
sola può legare fantasticamente insieme    
rose e viole, nella fantasiosa suggestione
poetica dell’idillio…
Il dì di festa: domani di rose e di viole…  (Le stagioni delle viole, 4)

Sì, nei giardini da sogno, dove brillano petali e piante lussureggianti, debordanti fuori dai cancelli che li recingono, in quei giardini possono crescere anche fiori che mascherano colla loro bellezza veleni mortali; come nella vita. Ma in questo giardino la Ferraris sventola amore, ed è esso che prevale sul tutto. Amore per il mondo, per l’esistere, per questa avventura che il poeta definisce “C’est un rêve: il vaut bien le vivre”. Amore per questa arte sempre-verde e per la natura che la ispira. Ed è a lei che affida il suo caldo grido perché faccia eco e risuoni senza tempo nei cuori degli uomini:

… Pace è questa natura trepida e luminosa,
sollecita fantasia, ballo di colori brillanti,
il sorriso della vita che si ridesta (Pace).

                                                                       Nazario Pardini
10/10/2013           




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