mercoledì 20 novembre 2013

SANDRO ANGELUCCI SU "I SIMBOLI DEL MITO" DI N. PARDINI


Nazario Pardini. I simboli del mito. Il Croco - Pomezia-Notizie. Ottobre 2013.

Sandro Angelucci

I SIMBOLI DEL MITO:
“L’ARIA CHE VIBRA” SFIORANDO I SEPOLCRI

  
      C’è una lirica, tra quelle contenute nell’opera vincitrice del “Città di Pomezia, 2013”, che fornisce - a mio parere - la chiave di lettura migliore per entrare nel vivo di una fatica letteraria tutt’altro che agevole. Intendo riferirmi al testo di pagina 12, A Domnery sui Vosgi, nel quale Pardini compie un’operazione difficilmente eguagliabile, unica se presa in considerazione sotto l’aspetto creativo. Proprio così: perché, immergendosi completamente nell’evolversi di questi versi, è possibile assistere “in diretta” (mi si passi il termine televisivo) ad una nuova nascita, al (ri)sorgere di Giovanna dalle sue stesse ceneri: novella araba fenice, non riproposta però, bensì reinventata.
      È la mitopoiesi: siamo di fronte alla parola che crea, non a quella che ripete, ripete e ripete fino all’esaurimento del sogno che incarna, molto spesso portandolo all’annichilimento come si svuota del sangue un’arteria. Ecco, insistendo sull’allegoria, qui si verifica l’esatto contrario: un cuore prende a pulsare e irrora le vene; qui, incredibilmente - ma è vero - si capovolge la storia: il rogo che bruciò quelle giovani carni, ora, sta incendiando la pelle aggrinzita, ormai disidratata, del corso degli eventi.
      Ed eccoli quei battiti: “Quanti anni / che bruciò questa ragazza!” - canta, illuminato, il poeta -; sono queste le palpitazioni autentiche, quelle soltanto attutite dal crepitio della legna che arse realmente e che adesso sovrastano ogni altra risonanza, ogni tragico rumore proveniente dal passato: “vanno oltre gli eroi”, oltre l’idolatria, “vincono la vita” perché sono più forti della morte.
      Non è la mitologia che conta, è il mito: di più, non è neppure il mito ma la sua simbologia. “La memoria vaga, / resta per sentito dire” ma la metafora è immortale, permane come una forza che cova “dentro i tronchi” degli alberi che innalzano magri “stecchi” verso il cielo; è il simbolo la foglia nuova, “prova di voglia” a sfidare i venti per un’altra primavera. Sono note, Note di mito, quelle che si ascoltano leggendo, e provengono da strumenti che fanno parte dell’orchestra sinfonica della natura: è tramite il suo concerto che si propaga l’armonia, anima del sogno e del futuro.
      Nella prova di cui si sta parlando gli elementi naturali - sempre presenti e fonte prima d’ispirazione per l’intera poetica del Nostro - assurgono ad un ruolo determinante: s’incaricano di trasmettere l’energia primordiale dei miti divenendone essi stessi simboli; in questo modo la leggenda è messa a nudo e si rivela al mondo come se fosse la prima volta. Ne deriva un racconto che non può che essere perennemente attuale - I simboli del mito, allora, (sostiene a ragione Domenico Defelice) anche per contenuto è opera impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle. . .” -; l’antichità classica, cui si ricorre, è motivo di spinta dinamica e non di statico ristagno. Per questo, ‘i segreti’ sono affidati alle Rocce possenti, i “divini templi” della Terra, in grado non solo di custodirli ma, cosa ancora più importante, di ridisegnarne i contorni o, meglio, di tenerli in vita demolendoli e facendoli rinascere nello stesso momento.
      Oltre quel muro - a mio avviso, vetta più alta della plaquette - è esemplare al riguardo: non sono defunti quelli che “escono dai marmi freddi”, sono persone reali; ma come possono, come fanno a risorgere? È molto semplice: perché sono morti per chi altro non sa percepire che “parole di spiriti”; non lo sono - di certo - per chi coglie la beatitudine della vita e della morte nell’“aria che vibra”, “che tocca le fronde” pendenti sulle “soglie dei sepolcri”. Si resta senza fiato a guardare da lassù gli inimmaginabili e sconfinati confini che si aprono alla vista dell’anima: “se guardi sotto l’ombre / dei cipressi, / i tramonti attendono l’oscuro, / il puro regno / oltre quel muro / dei nostri cimiteri.”.
     Mi permetto d’invitare a soffermarsi su questi versi di rara e sorprendente bellezza: la capacità poetica di Pardini è fuori discussione ma, qui, davvero, egli supera se stesso: in tutti i sensi, sia sul piano contenutistico sia sul versante formale. Del primo si è detto poc’anzi ma vale ribadirlo: non ci sono muri così alti da impedire la fuga dai “nostri cimiteri”; della creazione versificatoria vorrei porre, appunto, in evidenza l’estrema armoniosità: si notino i richiami delle assonanze e delle consonanze interne ed esterne, l’accentuazione felice ed impeccabile che induce chi legge a sostare sulle parole-chiave, la spezzatura dell’endecasillabo (misura fortemente amata), più che altrove, con grande resa fonico-costruttiva, viene qui, più che sperimentata, inventata, l’elisione - licenza poetica attualizzata - della ‘e’ nell’articolo delle “ombre”: inconfutabile ed appropriato recupero di stilemi tradizionali.
      Tutto questo (ma molti altri sono gli esempi che si potrebbero addurre) nel breve spazio della conclusione di una chiusa che, a lungo, resta impressa negli occhi e nella memoria. Una chiusa che rimanda immediatamente ai versi finali della raccolta, nei quali i simboli del mito si legano indissolubilmente all’amore, alla sua visitazione terrena dell’uomo: “La mano ancor più stretta / mi tenesti. . . / porgendo sguardi teneri / al mio viso, / ed un sorriso di pianto, / è l’ultimo dono che mi resta”.                                                                                                                                                                                   Sandro Angelucci                      
16/11/2013
Nazario Pardini. I simboli del mito. Il Croco 
Pomezia-Notizie. Ottobre 2013.


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