sabato 1 febbraio 2014

PAOLO BASSANI: "RIVERBERO", RACCONTI

RIVERBERO
Poesie e racconti
Presentazione
di
Francesco D’Episcopo


PUBBLICHIAMO I RACCONTI DELLA SILLOGE



UN MICIO,
UNA STORIA

“Curiosità”. Questo il nome che ho dato ad una gattina incontrata per la prima volta (e fotografata) il 10 giugno 2001. Le stagioni passano: va l’una e l’altra subito s’appresta. Vanno gli uomini e gli eventi, le speranze e i sogni. Resta solo la memoria e la paura di vederla scomparire nelle nebbia. Forse per questo ho deciso di scrivere questa storia: perché qualcuno sappia e qualcosa resti di quel frammento di vita. Quella lontana domenica di giugno eravamo ospiti a Canova, un ridente borgo
della Lunigiana immerso nel verde, di fronte alla suggestiva visione delle Alpi Apuane. Eravamo stati invitati perché Jessica, una nostra nipote, riceveva la sua Prima Comunione. E’ tradizione che in tale circostanza si invitino parenti ed amici per festeggiare insieme l’evento. Anche Curiosità, la gattina di Jessica, aveva pieno diritto di partecipare: anche lei (concedetemi questo lei) faceva parte della famiglia. Sennonché, la timida bestiola, abituata alla quiete della campagna e a vedere soltanto
persone familiari, si era alquanto impressionata davanti a quel insolito afflusso festoso di gente sconosciuta. Nel giardino, infatti, si erano via via adunati numerosi ospiti, cordialmente accolti dai genitori di Jessica ed invitati al ricco rinfresco per loro preparato.La gattina, che all’inizio era rimasta lontano, in disparte, piano piano si avvicinò cercando di vincere l’iniziale timore.
Si guardò intorno. Finalmente pensò d’aver trovato un luogo adatto per osservare. Così s’infilò, all’indietro, in un pertugio della conduttura di scarico dell’acqua piovana: un provvidenziale posto d’osservazione che le consentiva, in tutta sicurezza, di soddisfare la sua giovane curiosità.
Negli anni seguenti tornammo più volte a Canova. Parecchie stagioni erano passate e anche Curiosità era cambiata. Non era più la gattina curiosa di quel lontano giorno di fine primavera. Era diventata mamma. Il suo pensiero adesso era volto soltanto ai suoi piccini.
Poi è venuto l’autunno e l’inverno. Il bosco si è ingiallito e il freddo vento del nord ne ha disperso le foglie. Anche Curiosità è volata via come una foglia senza vita. Se n’è andata come Sonia, la giovane mamma di Jessica, anche lei inesorabilmente strappata alla vita. Chissà… Sonia e Curiosità forse si sono ritrovate in quel lembo di sereno, oltre le bianche vette d’Apuania.


IL MIO AMICO MOHAMED

Mi ricordo soltanto il suo nome: Mohamed. Uno dei tanti Mohamed dalla pelle scura, che percorrevano e percorrono tuttavia gli arenili festanti del litorale, giungendo, con il loro
carico di mercanzia, fin quassù nell'entroterra.
Era l'estate 1978. Sotto un pesante carico di coperte e tappeti, un uomo saliva lentamente il sentiero della collina che s'apre sulla valle, nel verde di pini, d'olivi e di castagni; qui dove
a giugno immense macchie di ginestre s'accendono di sole e
lontani profumi il vento del meriggio esala; qui dove ancora il
cuculo scandisce e alterna il suo richiamo a lunghe pause di silenzi.
Sotto il sole rovente, con quel carico pesante sulle spalle
come una croce, l'uomo era giunto davanti all'aia della vecchia
casa contadina e s'era fermato, come per riposarsi un attimo
e riprendere fiato. Poi, dato uno sguardo intorno, si avvicinò:
forse perché quell'antico casolare non gli incuteva timore
ma, anzi, gli ispirava fiducia. La casa, infatti, non aveva cancelli,
reti o muri intorno ma solo olivi, pergole e filari. Non aveva
neppure aiuole di giardino per fiori signorili; né per guardia il
cane lupo, ma un vecchio gatto seduto sulla soglia. Il forestiero
fece un cenno di saluto e ancora distante, quasi per chiarire le
sue intenzioni, disse: "Signore, dai acqua...sete..." Fu accolto
cordialmente per quel senso di ospitalità che sopravvive fra la
più antica gente contadina di questa terra. E per tale ragione,
invece dell'acqua gli fu tosto offerto un colmo bicchiere di vino.
"No vino! Acqua..." disse con garbo il forestiero.
"Ma questo è vino nostro, della nostra uva. L'abbiamo fatto
noi!” replicò il padrone di casa: Alfredo, il vecchio mezzadro
che teneva ancora in mano il fiasco. "Acqua, solo acqua..." insistette
il forestiero.
"Ma se proprio volete l'acqua...E' fresca. L'abbiamo presa alla
vasca poco fa. Posate pure la vostra roba e mettetevi qui all'ombra.
Oggi il sole non scherza: batte davvero! E poi a quest'ora.!"
L'uomo, liberatosi dell'ingombrante carico, pareva un cavaliere
che, toltasi l'armatura, fatica alquanto a ritrovare la normalità
dei movimenti.
E' sorprendente come nell'incontro fra persone semplici spesso
si stabilisca un dialogo immediato. E' l'umanità che affiora oltre
le vicende della vita. Così il forestiero incominciò a parlare:
in modo frammentario, con quel poco di italiano che aveva imparato.
Ci mostrava la sua mercanzia, ma pareva anche desideroso di
far conoscere la sua storia. Si chiamava Mohamed... Era di nazionalità
marocchina. Era stato "ingaggiato" come tanti altri
suoi connazionali che, per poche migliaia di lire e per un pasto,
percorrono giornalmente chilometri sotto il sole infocato dell'estate
con il loro pesante carico. Non padrone, dunque, ma soltanto
venditore per conto altrui. E questo volle ripeterlo più
volte.
Una storia semplice, come tante altre, con un risvolto
amaro come è amara la vicenda di ogni emigrante. Aveva lasciato
il suo paese per venire qui in Italia a fare "la stagione",
con la speranza che, in autunno, sarebbe tornato con un discreto
gruzzolo alla sua terra: laggiù al limitare del deserto dove,
nella piccola casa dal tetto e dai muri bianchi adagiata all'ombra
delle palme e al canto delle antiche nenie del Corano, lo
aspettavano la sua sposa e i suoi bambini. Da un logoro portafoglio
sfilò una vecchia foto e mostrò con orgoglio la sua famiglia.
Ci fu chiaro, dunque, perché non aveva accettato il vino; e
come non avrebbe preso altre bevande alcoliche, né mangiato
quelle fette di mortadella nostrana che, frattanto, Alfredo aveva
tagliato per lui. Fu allora che provammo, per quell'uomo venuto
da lontano, un grande rispetto, quasi una tenerezza e,
insieme, il desiderio di manifestargli la nostra amicizia, che nasceva
istantanea davanti alla sua dignità di ultimo uomo.
Avremmo voluto dirgli:"Sii il benvenuto. Riposati, ora
che il sole arroventa le pietre e le cicale disperdono il canto
del loro abbandono. Rimani! E' ancora lungo il giorno. Non
abbiamo molto da offrirti: solo pane, la torta di riso e il dolce
coi pinoli. Ma te li offriamo volentieri." Non trovammo però
queste parole. Sapemmo soltanto dire: "Prego... accomodati...
prendi qualcosa..." E dovcemmo ripetere l'invito più volte prima
che Mohamed accettasse. Ora nei suoi occhi si leggeva una
commossa gioia: non per aver venduto una coperta, ma per
quel bicchiere d'acqua fresca e per quella fetta di pane scuro
profumato d'amicizia.
Passò in fretta il tempo del riposo. Il nostro ospite aveva
ripreso le sue cose e adesso, con un sorriso, ci porgeva la mano.
Riuscì a sussurrare un grazie e una frase che non capimmo.
Era forse il saluto nella sua lingua, l'augurio che al suo paese si
porge nell'addio.
"Ciao, Mohamed! Se un giorno ti troverai ancora a passare
lungo la strada che costeggia il fiume, torna fin quassù. Sarai
il benvenuto" E l'uomo dalla pelle scura, con sulle spalle il pesante
fascio di coperte e di tovaglie, si voltò ancora per l'ultimo
saluto. Poi scomparve nella via deserta che si perde tra gli olivi.
Sono passati molti anni ormai, ma Mohamed non è più
tornato. Stagioni e stagioni si sono alternate: sole e gelo, frinire
di cicale e ululato di venti tra i pini e gli olivi della costa. Si
sono disperse le foglie; sono rinate e disperse ancora. Anche
Alfredo se ne è andato: è là sul poggio innanzi alla valle dei
Mulini, unito per sempre alla sua terra.
Il casolare di quel lontano giorno d'estate è ormai deserto. E già
sono pronte le ruspe: sarà abbattuto come un animale mortalmente
ferito. Tutto sarà sconvolto: olivi con le radici al vento,
vigne strappate dai filari, disperso il biancospino. Sui campi
divisi da confini sorgeranno muri di cemento, cancelli e reti. E
anche questa storia si perderà nel vento.
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Racconto vincitore del Premio Letterario Nazionale “Riccione-Satyagraha” 1993
- Riccione


LE FOGLIE DEI CASTAGNI

Castagni Grossi: questo il nome di una località sperduta
tra i monti di Caprigliola; una zona immersa nei boschi sul versante
sinistro della Valle dei Mulini, di fronte al monte Grosso.
Qui la nostra famiglia, unitamente ad altre due di parenti sfollati
dalla Spezia, trovò generosa ospitalità presso la cascina dello
zio Ermanno. Qui ho vissuto i primi anni della mia vita e, di allora,
nonostante la mia giovanissima età, custodisco ancor oggi
stampate per sempre nella memoria immagini freschissime. La
cascina sorgeva a ridosso del monte, al limitare di un fitto bosco
di castagni che danno appunto nome alla località. Tutto intorno
piane coltivate, olivi e vigne in pergole e filari. Il complesso
rurale si componeva di un vecchio casolare che ospitava
l’abitazione e le cantine con accanto una grande loggia ombreggiata
da un fitto pergolato. Più distante il fienile, le stalle,
il seccatoio con innanzi una piana dove era il pagliaio. Qui ho
vissuto tutto il periodo della guerra; qui si è instaurato in me un
profondo legame affettivo con la natura e con la mia gente contadina.
Ricordare quei tempi e il modo di vita di allora mi pare
utile soprattutto per i giovani che ignorano quasi completamente
le vicende d’allora. Ai giovani rivolgo dunque questi frammenti
di ricordi; e, tuttavia, anche ai miei coetanei o più anziani
che forse troveranno in queste parole qualcosa della loro esistenza.
Voglio innanzitutto ricordare quel caro vecchio casolare
che ci ospitò, oggi mezzo diroccato e scomparso nella macchia,
come sono purtroppo ormai scomparsi molti dei protagonisti
della mia storia. La casa aveva davanti un’aia di mattoni, una
meridiana solare al muro vicino al grande uscio verde che immetteva
direttamente in cucina; il tetto a coppi e poche minute
finestre senza imposte. La porta di ingresso aveva il passagatto:
il pertugio che appunto consentiva al gatto di entrare ed uscire
liberamente dalla casa. La presenza del gatto era familiare nella
realtà contadina. A Caprigliola esiste tuttora un casolare che si
chiama “Cà dl gato”. Anche da noi il gatto si trovava spesso
seduto sulla soglia e, quando nell’inverno si chiudeva la porta,
era accovacciato nell’angolo vicino al focolare, mentre noi
bambini seduti sulla grande cassapanca stuzzicavamo il fuoco
sognando alle storie degli anziani.
Il fuoco. Il fuoco era sempre acceso come nel tempio di Vesta;
forse perché la legna abbondava – a dispetto dei fiammiferi
(zolfanelli) che erano abbastanza rari; o piuttosto perché doveva
servire alla comunità di quattro famiglie che avevano la cucina
in comune abitazione. Il grosso nero gorgogliante paiolo
era un po’ il simbolo di questa costante attività e su questo
paiolo noi bambini avevamo una sorta di diritto alla raschiatura,
quando era svuotato dalla polenta. Mi ricordo che dividevamo
le pareti in quattro parti e ognuno prendeva possesso del
proprio spazio raschiando con estrema diligenza la polenta rimasta
attaccata. La polenta: piatto forte della cucina contadina.
Dorata e fumante, la rivedo sulla mastra mentre lo zio con il filo
(refo) la tagliava. Com’era buona condita con l’olio d’oliva e
con una spolverata di formaggio! A volte, in alternativa, si variava
con la polenta dolce (farina di castagne e latte), con la
pattona (una specie di castagnaccio povero, senza pinoli e uva
secca) cotta su foglie di castagno. Granturco e castagne erano
in quel tempo la base della nostra alimentazione e molteplice
l’utilizzo: così le pannocchie di granturco erano arrostite sulla
brace, così le castagne bollite con l’allora (i baleti) o arrostite
nella padella coi fori (le mondine). In momenti eccezionali
c’era anche il pane nero, ma per poco: la cassa rimaneva ben
presto vuota. E allora mi ricordo che scandivamo il ritornello.
“Cucù, cucù? N’ tla cassa n’ ghe ne pù”. Un altro piatto comune
erano i panigazzi, che poi sarebbero diventati italianizzandosi
“panigacci” o testaroli. Spesso i testi, uno sull’altro,
crescevano a dismisura assumendo la forma di una torre in miniatura,
a volte come quella di Pisa “che pende, che pende e
mai viene giù”: così diceva un motivo cantato in quegli anni.
Ma un giorno la pila dei testi si rovesciò e uno volle lasciarmi
su un piede il suo ricordo.
Per noi bambini poi c’era quasi sempre il latte quotidiano,
grazie alla generosità della mucca che pareva anch’essa
molto sensibile ai problemi dell’emergenza alimentare. Ma la
mucca era anche utilizzata per trascinare la treggia (la bena):
quella sorta di slitta con vimini intrecciati su due assi di legno
che serviva per il trasporto del fieno e, a volte, anche di noi
bambini.
Nella fattoria c’erano però anche altri animali: alcune
pecore, il maiale e numerose galline, che durante il giorno ne
andavano in giro per i campi e a sera puntualmente rientravano
al pollaio. C’era anche Chiappino, un grosso cane che faceva
buona guardia; un cane senza nobiltà di razza, ma eccezionale,
legatissimo a tutti noi. Un giorno tornò a casa con una formaggetta
intera ancora avvolta nella carta e intatta ce la depose ai
piedi. Chissà dove l’aveva trovata.
Rapide sequenze scorrono nella memoria riportando
profumi e sensazioni: la fragranza del pane appena sfornato,
l’aroma della crepitante fiamma d’olivo, la fioca luce del lume
ad olio appeso alla trave e le ombre lunghe proiettate sui muri;
il mortaio di marmo per pestare il sale, le teglie appese alla parete,
il secchio con l’acqua e la mestola di rame. Ma anche gravi
sequenze hanno impressionato la giovane lastra della memoria:
i tedeschi che perquisiscono la casa, le armi puntate, le colonne
che salgono il sentiero del monte portandosi via uomini
rastrellati in un sordo angoscioso rumore di passi. Fredde sequenze,
taglienti come il vento d’inverno che scende dal monte
Grosso, ululando nella notte tra i pini della costa e tormentando
gli olivi.


POESIA RAGIONE DI VITA

Ricordando
Anna Maria De Ghisi
Il mio primo incontro con Anna Maria De Ghisi risale a
metà degli anni settanta. Fu durante la premiazione, ad un concorso
letterario. Lei era presidente della commissione giudicatrice,
io uno dei tanti concorrenti venuti a ricevere una sofferta
medaglietta.
Prima d'allora, tuttavia, il nome di Anna Maria De Ghisi
non mi era ignoto: sapevo del suo legame con la poesia, e
qualche volta avevo avuto l'opportunità di leggere i suoi componimenti
poetici. Sapevo anche delle sue non buone condizioni
di salute; forse per questo, quando la conobbi personalmente,
rimasi colpito dal suo spirito di vitalità superiore a quello di
altri che dalla vita avevano avuto tutto.
Il suo segreto era dunque la poesia. In essa credeva ardentemente
e in essa trovava la forza per sentirsi partecipe, al
pari di ogni creatura, del sublime disegno della vita.
L'incontro di quel lontano giorno non rimase isolato: ne
seguirono altri nella sua casa di Migliarina e, anche se non divennero
frequentissimi, rimasero costanti fino alla sua morte.
Mi riceveva nel suo studio: lì c'era tutto il suo mondo, tutta la
sua vita; lì sentiva nascere e morire le stagioni senza poterle
vedere, perché la finestra dava sulla strada chiusa da alti palazzi.
Mi sono chiesto spesso quanto conforto avrebbe avuto invece
da una vista aperta sulla collina, verso gli olivi e i pini.
Ma, forse, per Anna Maria quello studio non era chiuso.
La sua poesia l'aveva aperto come un verde pascolo nel sole,
dove poteva ricevere i suoi poeti e dove giungevano le voci dei
suoi amici più lontani: Quasimodo, Montale, Bargellini, Carlo
Bo e tanti altri.
Lo studio ora è vuoto, ma tutto è rimasto come allora: le
medaglie d'oro e gli antichi dipinti dei De Ghisi alle pareti, la
biblioteca, la scrivania, la sua penna d'oca, la vecchia pendola.
Non c'è più l'usignolo. Il suo canto si era già spento qualche
anno prima della scomparsa della De Ghisi. In questo studio
posso dire di aver conosciuto veramente Anna Maria, la sua
poesia, la sua vita.
La poesia che nasceva, e si rafforzava negli anni, dava
forza, speranza all’esistenza, colmava solitudini e diventava ragione
di vita. Non tutti forse capivano. Ma nonostante questa
necessità di poesia - senza voler fare una approfondita analisi
sulla poetica della De Ghisi - non è difficile riconoscere la validità
di un linguaggio che spesso raggiunge grande intensità
emotiva e lirica. Tutto questo non è nato da improvvisazione,
ma è frutto di anni di studio e di ricerca.
Anna Maria De Ghisi non aveva timore di classificarsi
"autodidatta". Ma noi sappiamo che si dedicò con grande impegno
allo studio della letteratura, della filosofia e dei classici,
indirizzata e seguita con affetto da alcune persone molto qualificate.
l testi di Pascal e di Tagore le erano familiari e, soprattutto,
amava i versi di Emily Dickinson che spesso citava. In
essi la sua spiritualità trovò nuova linfa dandole forza e gioia di
vita e facendole cogliere il valore del creato e delle creature;
una spiritualità che trovava nel messaggio cristiano il suo compimento
ideale.
Anna Maria De Ghisi è entrata nella Poesia del Novecento
della nostra terra ed, oggi, con la collocazione di una targa
ricordo nella sua casa, la Città della Spezia vuole onorarne
la memoria e perpetuarne il messaggio di vita, d’amore e di
speranza.


IL GRILLO E LA FORMICA:
una favola riscritta
La Rai aveva bandito un concorso alquanto originale. Si
doveva scrivere un racconto per Televideo, rispettando lo stretto
spazio della pagina televisiva: massimo 17 righe, e per ogni
riga non più di 39 battute. Il concorso era aperto a tutti e completamente
gratuito. Chi ha esperienza di premi letterari, sa che
normalmente è richiesta una quota di partecipazione più o meno
consistente.
Ebbene, quando seppi la notizia, pensai che forse valeva
la pena di partecipare. Che cosa spinge un autore a partecipare
ad un concorso? Sicuramente, prima di tutto, il sogno di vedere
la propria opera in qualche modo riconosciuta valida dalla giuria.
Poi, naturalmente, la consistenza del premio. Sì, il premio
può essere un valido incentivo, soprattutto quando è in denaro.
Non suoni come scandalo questa affermazione, quando esce
dalla bocca di chi si dedica alla poesia. “Ogni scrittore - anche
se lo nega - (ci ricorda Palazzeschi) cerca sempre un lettore”.
Orbene, per avere un lettore, è indispensabile avere un supporto
che divulghi il pensiero, ovvero la scrittura: il libro. Far
stampare un libro, costa. E quanto costa! Ecco, allora, che un
premio in denaro vinto in un concorso letterario può diventare
provvidenziale. Un autore di poesie non si illuda di trovare un
editore mecenate, disposto ad accollarsi le spese di stampa.
Anche i grandi poeti, all’inizio, misero mani al portafogli e pagarono
di loro tasca gli stampatori.
Il premio Rai previsto per il concorso “Un racconto per
Televideo” non era, però, in denaro, ma consisteva in un semplice
CD. Sembra strano, oggi che fiumi di denaro scorrono rigogliosi
da programmi leggeri leggeri beneficando come una
lotteria.
Il vincitore, ovvero l’opera vincitrice, avrebbe avuto,
però, un risalto eccezionale: sarebbe stata trasmessa su Televi61
deo per 48 ore, non soltanto in Italia ma ovunque giungeva il
segnale Rai. Era questo, sicuramente, il più bel premio che un
autore potesse attendersi.
Decisi, dunque, di partecipare. Avevo già una mezza
idea: avrei riscritto, in chiave moderna, l’antica favola della cicala
e la formica, inserendo un personaggio nuovo: il grillo.
Sentivo il desiderio di fare un’opera di giustizia: riabilitare
quella povera cicala sempre condannata ingiustamente come
vagabonda. L’idea mi era venuta ascoltando una notizia trasmessa
qualche giorno prima dal Telegiornale di Raiuno delle
ore 20: il decano dei telegiornali. La notizia diceva pressappoco
questo: “Alcuni studiosi americani hanno messo sotto controllo
il comportamento della formica ed hanno constatato, con
una certa meraviglia, che questo insetto non è poi il gran lavoratore
che la tradizione ci ha sempre fatto credere. Sì, la formica
trascorre più del 70% del suo tempo in un dolce far
niente”
Vi confesso che questa rivelazione mi colpì non poco. Invero,
io ho sempre avuto una “cordiale” antipatia per la formica. Forse
perché mi è stata sempre presentata (già dai banchi di scuola)
come l’esempio da imitare: “Fai come la formica!” Ma, se
ragioniamo un attimo, vediamo che essa non è certamente un
campione di virtù: è egoista, corporativa, e anche ladra; infatti,
si porta via tutto quel che trova. E, come se non bastasse, è anche
invadente: durante l’estate me la ritrovo sempre in casa.
Della cicala, invece, e del suo canto, custodisco un lieto ricordo.
Mi rammenta i lontani tempi dell’infanzia, quando nella
lunga estate delle vacanze in Lunigiana, il suo canto si univa,
dolce come una ninna nanna, al tempo del riposo pomeridiano
della nostra gente contadina. Sì, la cicala - a differenza della
formica - assolveva quasi un compito di “volontariato”: donava
il suo canto senza nulla chiedere.
Non fu semplice conciliare il mio racconto per Televideo
con le rigorose regole previste: fare, insomma, una sintesi
della mia favola in 17 righe. Quando mi parve d’esserci riuscito,
preparai subito gli elaborati e, senza indugio, li inviai alla
Rai.
Passò qualche mese e, un giorno, la televisione comunicò
il successo di partecipazione riscosso dall’iniziativa: 3400
erano i concorrenti che avevano inviato i loro racconti, non soltanto
dall’Italia ma anche da diversi paesi europei, dal Canada,
Stati Uniti ed Australia. Nell’apprendere ciò, mi misi il cuore
in pace: non mi sognavo lontanamente d’essere io il vincitore.
E, così, non pensai più al concorso, finché un giorno, inattesa,
mi arrivò una telefonata. “Sono…, giornalista de… e vorrei
venire ad intervistarla”: così disse la voce dell’ignoto interlocutore
telefonico. Mia moglie che, poco distante, aveva sentito
tutto, esclamò: “Dove abbiamo messo il biglietto della lotteria!”
Già, lei era arrivata alla più logica delle conclusioni.
“Perché vuole venire ad intervistarmi” dissi con meraviglia
al giornalista. “Ma, come, la Rai non lo ha informato che
il suo racconto ha vinto il concorso di Televideo?” “Veramente
non so nulla!” replicai stupito.
“Ebbene, apra la televisione e alla pagina 148 di Televideo
troverà la notizia”. Sì, era proprio vero.
Mi chiesi, più volte, come il mio racconto “Il grillo e la
formica” avesse potuto riscuotere favore nell’autorevole commissione
giudicatrice, di cui faceva parte anche lo scrittore e
presidente della Rai, Enzo Siciliano. Probabilmente, il mio racconto
era stato abbastanza originale e, come ogni favola, aveva
una sua morale, peraltro abbastanza attuale in quel tempo.


LA SCAMPAGNATA DI PASQUETTA

Nostalgia per una bella tradizione scomparsa
“Che cosa rimpiange del passato?”: fu chiesto un giorno
a Ungaretti, durante una intervista televisiva. Con l’arguzia e la
simpatia che gli erano proprie, il grande poeta vegliardo rispose:
“Il canto dell’ubriaco”; e subito -quasi a voler chiarire il suo
pensiero al perplesso cronista che gli aveva posto la domanda -
soggiunse che, proprio la scomparsa del canto dell’ubriaco, era
la conferma di quello stato di malessere tipico dell’inquieto vivere
moderno. Non significava che l’ubriaco era sparito ma,
piuttosto, che egli stesso si era trasformato: aveva perduto quella
sua caratteristica allegra per chiudersi in se stesso, divenendo
triste e spesso aggressivo.
Non a caso ho voluto ricordare questo episodio; c’è in
esso, come potete vedere, un legame con questi miei frammenti
miranti a rievocare un momento particolarmente simpatico della
vita spezzina. Se anche voi siete della mia generazione - non
più giovani, per intenderci - certamente vi ricorderete con una
punta di nostalgia di quel lunedì dell’Angelo che era per noi il
giorno della scampagnata.
Già nel mattino le vie che conducevano sui colli, da
Porta Genova a Porta Isolabella, da via XXVII Marzo a Porta
Castellazzo e su su fino a Sarbia, e così la strada che portava
alla Foce, si animavano di gente festante: uomini e donne, giovani
e anziani: intere famiglie che arrancavano sui ripidi tornanti
portandosi grosse borse e sporte ripiene. E con l’andar del
tempo le vie si affollavano sempre più assumendo quasi
l’aspetto di un pellegrinaggio, tanto che la sede stradale pareva
divenuta un percorso riservato ai pedoni. Così quella marea di
gente saliva verso la campagna, accampandosi sui prati che si
affacciavano lungo il cammino. Nasceva in questo modo la più
spontanea e cara festa campestre degli spezzini. Nell’aria luminosa
della primavera, come un concerto s’innalzavano le voci,
mentre la gente, seduta sulle alture, sembrava occupare gli
spalti di una maestosa arena innanzi all’incantato spettacolo del
golfo.
C’era allora un’armonia...un modo diverso d’essere, che
nasceva forse da una vicinanza, da un incontro, vorrei dire da
uno spirito paesano. C’era una maggiore disponibilità ad apprezzare
le cose semplici, dovuta forse al fatto che poche erano
le possibilità offerte da quei tempi. E tuttavia questa limitazione
non impediva, ma facilitava il trascorrere di momenti sereni.
Anzi, sotto questo punto di vista il successo era completo. Il
segreto era dunque proprio lì: in quel modo immediato e fresco
di comunicare e di legarsi agli altri. Bastava sedersi sull’erba,
davanti ad una ruvida tovaglia che offriva fette di pane scuro,
un piatto di cotolette, qualche fetta di torta di riso e un fiasco di
trebbiano, per ritrovare poi l’allegria e un nuovo gusto per la
vita. L’automobile - che avrebbe cambiato tante abitudini - non
era ancora arrivata, e neppure si pensava ad essa. Non era ancora
giunto il caotico fine settimana fatto di caselli, di code snervanti
e d’autostrade, di ristoranti “tipici”, di piatti e bicchieri di
plastica. La campagna, a due passi dalla città, era ancora aperta
e pulita, e limpido il cielo e più chiaro il sole e più vero
l’avvento delle stagioni.
La scampagnata di Pasquetta era più di una tradizione:
pareva divenuta un rito. Era l’incontro con la primavera. E allora
la buona stagione giungeva puntuale all’appuntamento; non
come oggi che ci mostra spesso un volto malato, ove s’accenna
e sfiorisce effimero annuncio di rondini mute che non si fermano
più.
A volte, facendo il confronto tra passato e presente, mi
chiedo che cosa ricorderanno dei loro tempi i giovani d’oggi.
Certamente non la nostra scampagnata di Pasquetta. Essi non
hanno vissuto quel momento; non perché non vollero, ma perché
non lo trovarono. Fu certamente colpa dei tempi che, offrendo
nuove possibilità, promisero migliori occasioni di sva65
go, ma fu anche colpa dell’uomo che, abbacinato da tante novità,
credette di emanciparsi fuggendo dalla semplicità di molte
tradizioni; pensò d’essere più libero chiudendosi in se stesso,
più moderno rifuggendo da quello spirito paesano che ancora
lo legava al passato, alla gente, alla terra.
Tornava la gente a sera giù dai Colli e dalla Foce, finendo
in canto quella serena scampagnata di pasquetta. E
quando già nella notte brillava la città di luci, e la faccia della
luna spargeva il suo quieto e pallido chiarore, ancora qualche
voce...qualche canto s’indugiava lungo la strada che scendeva.
Come Ungaretti, anch’io, per quel lontano canto che nasce
dal ricordo, oggi sento tanta nostalgia.


IL MIO PRIMO GIORNO DI LAVORO
ALLA TERMOMECCANICA

Mi arrivò, inattesa, una cartolina postale con una comunicazione
altrettanto inattesa: “La preghiamo di presentarsi per
notizie che la riguardano”. Mi giungeva da un mittente per me,
allora, quasi sconosciuto: Termomeccanica Italiana S.p.A. Cercai
di sapere qualcosa di più. “E’ quel grande stabilimento metalmeccanico
di via del Molo, vicino al cimitero” mi dissero,
aggiungendo: “Hai fatto qualche domanda di lavoro?” No,
assolutamente.” risposi. “Ti conviene, in ogni caso, andare e
sentire che cosa vogliono” mi fu consigliato. E così, il giorno
dopo, mi presentai all’azienda. Non avevo faticato a trovarla,
sia per la vastità del complesso, sia perché conoscevo la strada
dei Boschetti: due mesi prima l’avevo percorsa accompagnando
mia madre al cimitero, morta improvvisamente e ancor giovane.
Quando giunsi davanti all’entrata della Termomeccanica,
rimasi colpito dal grande portone bronzeo su cui campeggiava
una grossa T scolpita e dall’ampia elegante portineria che
assomigliava al salone di ingresso di un grande albergo. Fui
fatto accomodare in una saletta attigua in attesa che il direttore
amministrativo si liberasse. Mi ricordo che sulla porta del suo
ufficio c’era una sorta di piccolo semaforo: la luce rossa significava
che non si poteva entrare. Quando apparve il giallo il
portiere, tenendo tra le mani la mia cartolina, mi introdusse
nell’ufficio. Dopo una breve presentazione il direttore spiegò le
ragioni della convocazione: “La nostra società ha deciso di
ringiovanire il proprio ufficio paghe. Abbiamo preso contatti
con il vostro istituto scolastico e, poiché lei risulta tra i diplomati
meglio classificati, le facciamo la seguente proposta: Sarebbe
interessato ad iniziare un rapporto di lavoro con la nostra
società? Inizialmente sarebbe collocato all’ufficio paghe,
come tirocinante… in seguito, in base alle sue qualità, potreb67
be anche migliorare il suo percorso professionale all’interno
dell’azienda.” Non mi aspettavo quella richiesta e, quindi, non
seppi dare una risposta immediata. Invero, ero ancora immerso
in quella incerta atmosfera subentrata alla morte di mia madre.
Non avevo ancora deciso che fare. Mi sarebbe piaciuto continuare
gli studi, ma non avevo ancora valutato le impreviste difficoltà
che si affacciavano. Al direttore non sfuggì la mia incertezza
e, quindi, mi disse (ho qui stampate nella mente le sue parole):
Comprendiamo che dobbiamo chiederle di prendere
una decisione importante per la sua vita”. Dopo un attimo di
pausa aggiunse: “Le diamo una settimana per rifletterci. Se,
poi, la proposta non le interessa, non è necessario che torni di
persona a riferirlo: ci dia una telefonata e noi contatteremo altri…”
E, così dicendo, mi allungò il suo biglietto da visita.
Tornato a casa, pensai tutto il giorno a quella proposta
senza approdare ad alcuna decisione. La mattina seguente, però,
mi fu tutto più chiaro. Fu sufficiente un semplice ragionamento
a farmi decidere. La Termomeccanica era una grossa azienda
che contava oltre mille dipendenti. Pertanto, disponeva
di una mensa aziendale. Evviva! Avrei risolto metà del mio
problema: a mezzogiorno avevo un pasto assicurato; soltanto la
sera, quindi, sarei andato alla mensa dei ferrovieri. Già, non ho
detto che con la morte di mia madre la nostra famiglia si era
ridotta a mio padre ed io. Mio padre era ferroviere e, quindi,
faceva spesso i turni del giorno e della notte. Ecco perché
anch’io spesso, per stare insieme con lui, andavo a mangiare
alla mensa dei ferrovieri. Mi tornano alla mente le parole dello
scrittore Giovanni Petronilli: “La sofferenza maggiore non è
tanto vivere soli, quanto mangiare in solitudine”.
La vita è fatta di momenti vissuti. Alcuni di essi restano
a segnare per sempre il percorso. Uno di questi è per me il 9
dicembre 1957: il primo giorno di lavoro. Alle 8 ero già in attesa
in portineria. Con mio stupore e piacere trovai Renzo, un
mio amico di scuola, anch’egli in attesa di entrare all’ufficio

paghe. Aspettammo quasi un’ora, poi finalmente il direttore ci
chiamò e, personalmente, ci accompagnò all’ufficio paghe. Mi
ricordo che, aperta la porta, tutti gli impiegati scattarono in
piedi: “Vi presento i vostri due nuovi colleghi” disse con voce
solenne. Incominciava così il mio primo giorno di lavoro. Ero
talmente felice che mi pareva di vivere un sogno. Ritrovo vivi
come allora i nomi dei colleghi: Figari, Filattiera Zignani, Garetto,
Monti, Baldi, Tanzi e, naturalmente Michi, l’amico entrato
con me; poi, qualche tempo dopo, Calamai (nuovo capoufficio)
e successivamente Sommovigo e Barcellone.
L’ufficio paghe si era davvero ringiovanito: eravamo in
sei “ragazzi”, tutti provenienti dalla stessa scuola. E’ bello, dopo
i tempi dello studio, ritrovarsi insieme in uno stesso ufficio!
Per me, poi, lo era ancor più, perché il lavoro e gli amici colmavano
il grande vuoto di solitudine che la morte di mia madre
aveva aperto (ero figlio unico e mio padre era spesso impegnato
nel lavoro). Ero così contento di lavorare, d’essere in un ambiente
amico, che l’impegno non mi pesava, anche quando mi
fermavo, oltre l’orario, per imparare ad usare (senza guardare i
tasti) la calcolatrice meccanica. Pensate! La felicità di quel lavoro
mi faceva trovare perfino in disaccordo con il buon Leopardi.
Vi ricordate? Egli, pensando alla domenica, aveva scritto:
“Diman tristezza e noia/ Recheran l’ore, ed al travaglio usato/
Ciascun in suo pensier farà ritorno”. No! Non era così
per me. In quei tempi, invero, io mi sentivo quasi contento la
domenica. Pensavo che l’indomani sarei tornato in ufficio, tra
gli amici, in “famiglia”.

PENSIERI E RICORDI DELL’ULTIMO GIORNO
ALLA TERMOMECCANICA

Erano quasi le 17 quando squillò il telefono. “Signor
cassiere, siamo tutti in attesa della tua augusta presenza. Se
vuoi degnarci di tanto onore...” Riconobbi subito la voce
scherzosa di Stefano. “Vengo, vengo!” risposi prontamente,
mentre mi accingevo a chiudere la cassaforte, così come avevo
fatto ogni sera, per anni ed anni. Ma questa volta avvertivo la
diversità: non si trattava della solita operazione che quasi automaticamente
chiudeva la mia giornata di lavoro. No, adesso
era l’ultimo adempimento, l’atto definitivo che chiudeva la mia
vita di lavoro. E tra poco, con la consegna delle chiavi al mio
successore, avrei suggellato quell’azione anche formalmente,
quasi con la solennità d’un rito. Che strano! Soltanto allora mi
parve di capire il valore simbolico che le chiavi esprimevano:
un valore antico di millenni. E mentre scattavano le serrature
dei pesanti portelli blindati, sentivo nascere i pensieri
dell’addio. La cassaforte non mi appariva più un freddo arredo
di lavoro: forse aveva anch’essa un’anima e meritava allora il
mio saluto: “Tanto tempo abbiamo vissuto insieme (quasi sempre
in accordo) e vagamente somigli questa sera ad una nobile
signora di una certa età - sobria eleganza, parole misurate - in
piedi sull’uscio ad attendere un saluto. Portelli blindati, le
chiavi, la combinazione: sono i sigilli della tua dignità. Aprire
e chiudere ogni giorno, come un rito, era il mio compito e annotare
le tue disposizioni: Tanto ho avuto, tanto ho dato, tanto
devo avere. E tua era la verità. Che strano! ora che rendo le
tue chiavi, fatico a ritrovare un lontano giorno di festa. Ma il
tempo non indugia. Le stagioni passano: va l’una e l’altra subito
s’appresta. Vanno gli uomini, i pensieri, le speranze, i sogni.
Restano i ricordi. Nel tuo cuore segreto, per sempre custodiscili
per me.”
Quando entrai nell’ufficio del direttore - qui i colleghi
avevano preparato i tavoli del rinfresco - sentii una grande
commozione. Ogni mattina, per anni, avevo varcato quella soglia,
ma ora non venivo a farmi firmare i documenti del giorno;
venivo a raccogliere il saluto dell’addio. Sì, adesso era giunta
la mia ora. Molte volte, in passato, ero stato io a porgere il saluto
ai colleghi che andavano in pensione; e come augurio avevo
portato spesso la pergamena con impressa la poesia “Ultimo
giorno”, recante le firme degli amici, a ricordo del tempo passato
insieme. A volte avevo ritrovato quella pergamena incorniciata
e appesa, in bella mostra, nella casa di qualche amico
pensionato.
E’ stato scritto che l’esistenza è fatta di momenti vissuti;
e quelli importanti rimangono, come pietre miliari, a segnare
il percorso della nostra vita. Per questo innanzi tempo ci prepariamo
a viverli. Ma spesso, quando entriamo in essi, ci accorgiamo
che sono differenti da come li avevamo figurati. Anch’io
m’ero preparato un bel discorso ma, in quel momento, le parole
si annullavano nella commozione che faticavo a nascondere;
commozione che vedevo riflessa negli occhi degli amici. Erano
venuti davvero in tanti a salutarmi. E mi avevano portato un
magnifico dono: una serie di prestigiose penne d’oro (le stesse
che ancora oggi utilizzo quasi giornalmente).
Si era ormai dissolta l’eco degli applausi; soltanto il
rumore dei miei passi risonava ora nei lunghi corridoi deserti.
D’un tratto immagini lontane presero forma sempre più chiara,
come se il sole avesse dissolto per incanto un opaco muro di
nebbie. Mi vedevo ragazzo, entrare nell’ampia portineria, maestosa
come l’atrio di un albergo. Sentivo un fremito di gioia
nell’attesa. Poi lo schiudersi d’un uscio: “Vi presento il vostro
nuovo collega...” Ho qui stampati nella mente i loro volti. Il
mio primo giorno di lavoro era lì intatto; ora che l’ultimo stava
per chiudere la parentesi aperta allora. Che strano! Passato e
presente si confondevano e così volti, parole, pensieri. Una vo71
ce pareva ancora dar suono ai lontani versi della pergamena:
“Svanisce il giorno nel crepuscolo e il crepuscolo si perde nel
silenzio quieto delle sera. Giunta è la sera tanto attesa, ma è
giunta vestita di malinconia. Che resta del giorno alla sera?
Che resta di tutta una vita, che resta? Più niente? Soltanto il
ricordo?” Una cappa grigia mi parve innanzi e un volto di
bambino: “Se oggi il mondo possiede qualcosa è anche merito
tuo: della tua fatica, del tuo lavoro. Il mondo di oggi deve alla
vita di ieri. Il mondo di domani dovrà alla vita di oggi. Chi semina
un albero a volte non lo vede fiorire; eppure non
s’arrende per questo. Egli sa che altri verranno a godere
quell’ombra odorosa. Stasera, tornando alle tua casa, agli affetti
più puri, più cari, porta l’augurio più vivo, più bello, di
questa nostra perenne amicizia. Addio...”
Poi la vecchia scheda magnetica scivolò nell’orologio e, con il
suo ultimo rauco suono, fermò per sempre il battito del tempo.


AVANTI C’E’ POSTO

Il caro vecchio tram della linea Chiappa era arrivato alla
pensione. Era quello il suo ultimo viaggio. Anch’io, bambino,
ero andato a salutarlo con i compagni al capolinea di via Cesare
Bertagnini. Un vago senso di malinconia sentivo, quello che
si prova per ogni cosa che ci lascia. C’era qualcosa nel mio inconscio
che mi legava al tram. Le rotaie, gli scambi, lo sferragliare
delle grosse ruote d’acciaio, la sua stessa forma, mi ricordavano
il treno. Già, il treno faceva parte, in qualche modo,
della mia famiglia: mio padre era ferroviere, come i suoi fratelli
e quasi tutti i nostri parenti. Ma, per noi bambini della Chiappa,
il treno era lontano: per vederlo dovevamo andare a Gaggiola.
Il tram, invece, era sempre tra noi; una presenza che si
legava alla vita d’ogni giorno. Forse, per questo, con lui (lasciatemi
passare questo “lui”) avevamo fatto presto amicizia e
preso confidenza. Invero, qualche compagno più grande e un
po’ discolo a volte se n’approfittava. Ad agosto, per esempio,
nei giorni che precedevano la festa del quartiere (San Bernardo),
sistemava sulle rotaie mucchietti di polvere esplosiva (una
miscela di clorato di potassio comprato in farmacia e zolfo) e,
così, al passaggio del tram era tutto un crepitare di spari come
una battaglia vera. Qualche volta il tranviere scendeva a “bonificare”
la linea.
Con la scomparsa del tram si chiudeva una pagina di
storia del quartiere e con essa andavano in pensione abitudini,
locuzioni e vocaboli (“attàccati al tranvai”, “il solito tran tran
tranviere” e così via; sempre rigorosamente con le “n”). Ma
per ogni pagina che si chiude un’altra se ne apre: ancora tutta
da scrivere. Quella nuova pagina aveva come suo protagonista
il filobus che avrebbe, in un certo senso, portato a cambiamenti
d’abitudini e di mentalità. La vita, in fondo, è tutta
un’abitudine. Ogni novità, inevitabilmente, comporta sempre
qualche problema di adattamento e di comportamento. Perfino
il lessico non ne rimane immune. Mi ricordo, per esempio, la
difficoltà di trovare per gli addetti al filobus un vocabolo appropriato
che li catalogasse. Se era stato facile coniare “tranviere
(da tram) non lo era altrettanto, adesso, davanti a quel
nuovo composito vocabolo “filo-bus”. Come si doveva chiamare
l’operatore del filobus? Forse “filibustiere”? No! Non era
necessario essere un linguista per sentire che quel vocabolo
strideva alquanto, dando l’idea non di un alacre operatore del
trasporto ma, piuttosto, di un tipo per niente raccomandabile.
Qualcuno cercò allora, senza fortuna, di coniare qualche altro
termine: “filobusere” “filobusista”. Ma, come si sa, la fortuna
gioca un ruolo importante anche nel dare una patente alla parola.
Quei vocaboli non ebbero fortuna e, così, il guidatore del filobus
rimase genericamente autista e l’altro, addetto a riscuotere
il pedaggio, bigliettaio.
Il filobus, rispetto al tram, rappresentava certamente un
passo avanti nel campo del trasporto degli utenti: era più dinamico,
scorrevole e meno rumoroso. Era, insomma, più moderno,
in linea con i tempi. Ma anche la modernità ha bisogno di
un certo tempo per imporsi e stabilizzarsi. Ogni novità va messa
alla prova dei fatti e richiede spesso qualche aggiustamento.
Mi ricordo, per esempio, che in certi tratti della filovia, dalle
mie parti, le aste del filobus “scarrucolavano” frequentemente
costringendo l’autista a pazienti esercizi di ricollocazione (non
piacevoli, soprattutto sotto la pioggia). D’altra parte, anche i
viaggiatori dovevano prendere confidenza con il nuovo mezzo.
All’inizio avevano un certo timore delle porte automatiche: la
paura di rimanere chiusi tra esse, magari quando il filobus riprendeva
la sua corsa. Già, la corsa! Mentre il tram aveva ben
definito il suo percorso, il filobus no, diventava qualche volta
imprevedibile. Perdere l’equilibrio, per una svolta o una frenata
inattesa, voleva dire spintonare e, a volte, trovarsi quasi abbracciati
a qualche altro utente (non sempre entusiasta
dell’incontro). Mi ricordo che il bigliettaio (non era ancora entrata in funzione la biglietteria automatica) immancabilmente rivolgeva il suo invito: “Prego…avanti c’è posto”. Io non mi
facevo certo pregare: di solito, preferivo collocarmi a ridosso
dell’autista. Mi piaceva vedere il percorso e la strumentazione
del cruscotto: il voltmetro, l’amperometro e tutte quelle spie
luminescenti (verdi, rosse, gialle, a volte lampeggianti): magia
multicolore del quadro di comando. E, poi, mi interessava vedere
l’autista al suo lavoro: alle prese col volante, col rubinetto
per l’apertura delle porte, col pedale dell’acceleratore e il freno.
Già, proprio il pedale del freno guardavo con una sorta di timore,
quando il filobus percorreva in velocità la ripida discesa dei
Fossitermi. Mi ricordavo la scena di un camion che, per un
guasto ai freni, era finito contro il muro.
La memoria mi riconduce adesso al 28 gennaio 1951: il
giorno dell’inaugurazione della linea filoviaria; nel mio caso
Chiappa-Ospedale. Anche noi, quella domenica, eravamo scesi
in strada ad attendere quel primo filobus, coscienti di vivere un
momento storico. E l’attesa non andò delusa. Anzi, ben cinque
filobus apparvero in sequenza, tutti infioccati di nastri tricolore,
pieni di autorità e di invitati. Quel primo filobus, contrassegnato
con il n° 210, che apriva la sfilata, dava inizio ad una nuova
era nei trasporti cittadini, entrando trionfalmente nella comunità
e nella nostra vita di tutti i giorni.
Ma, anche noi, popolo comune, sentivamo il desiderio
di fare il nostro viaggio inaugurale. Mia madre ed io lo facemmo
la domenica seguente partendo dal capolinea del Negrao,
naturalmente pagando il biglietto. Ci rendemmo subito conto
della fortuna che avevamo, abitando vicino al capolinea! Voleva
dire avere sempre il posto a sedere assicurato. Quel primo
viaggio inaugurale, per noi, non ebbe soste (e non poteva essere
altrimenti); seguì il percorso andata e ritorno per intero:
Chiappa-Ospedale-Chiappa.
Più di mezzo secolo è ormai passato da quel primo
viaggio. Anch’io, come tanti spezzini, ho un debito di ricono75
scenza, di affetto, verso il filobus. Anzi, vorrei dire che forse
gli devo qualcosa in più. Sì, confesso: ho anche qualcosa di cui
farmi perdonare. Per carità, non pensate troppo male! Non ho
mai scritto sulle pareti e sui sedili, né viaggiato in clandestinità.
Soltanto una volta non pagai il biglietto, ma senza premeditazione.
Quando me ne accorsi ero ormai giunto a due passi
dall’uscita. Rischiai. E se mi avesse fermato il controllore? Che
figura miserabile! davanti a tutti! Che vergogna! Una cosa però
va detta a mia discolpa: il giorno dopo quel viaggio “franco
presi carta e penna e scrissi alla Fitram. Inviai l’importo del biglietto
non pagato.
C’è, però, ancora qualcosa che devo farmi perdonare.
Ora, vestendo il ruolo del pentito, sento di dovere le mie scuse
ad un ignoto autista del filobus, a diversi utenti e alla FITRAM:
per una vecchia storia di tanti anni fa. Come detto, io abitavo
alla Chiappa in via Genova, sul lato destro della strada verso la
Foce. Qui era l’ultima fermata del filobus, prima del capolinea
del Negrao. Ma, forse, è meglio che spieghi per filo e per segno
tutta la vicenda. Avevo acquistato da poco tempo un grosso registratore
audio a nastro, meraviglia delle meraviglie per quei
tempi. Ero giovane allora e, come ogni giovane, sentivo
anch’io una scanzonata propensione per lo scherzo. E così un
giorno, senza pensarci troppo, decisi di giocare un tiro
all’autista del filobus che si fermava proprio davanti alla mia
finestra (a pianterreno). Erano circa le 12,50 quando arrivò il
mezzo. Come al solito si aprirono le porte e i viaggiatori incominciarono
a scendere. Fu allora che, a tutto volume, misi in
funzione il registratore che scandì il segnale orario delle ore 13,
registrato il giorno precedente dalla radio. Ho qui, stampata
nella mente, la scena che seguì. L’autista, estratto l’orologio
dal taschino, visionò l’ora. Rimase un attimo indeciso, poi, aggiornate
le lancette, ripartì come una saetta. Quel giorno il filobus
non sostò al capolinea del Negrao in attesa delle ore 13.
Partì innanzi tempo lasciando a terra, lungo il suo percorso,
non so quanti passeggeri. Non voglio pensare a quante imprecazioni
volarono all’indirizzo di quell’ignaro autista e della FITRAM.
Chissà se vive ancora questo autista. Vorrei incontrarlo
per stringerlo con un fraterno abbraccio.
________________________________
Racconto secondo classificato al Concorso Letterario “Storie di quartiere” 2008

La Spezia


MIETITURA A CAPRIGLIOLA

Prima di impartire la benedizione, il parroco, don Raffaele
Ciabattini (era monsignore, ma penso che ben pochi lo
sapessero), in caprigliolese schietto e con la naturalezza comunicativa
che gli era congeniale, si rivolse ai suoi parrocchiani
con pressappoco le seguenti parole (mi dispiace di non saperle
ripetere in caprigliolese): “Con la messa abbiamo assolto una
parte del precetto festivo…bene! Non pensiamo, però, che una
volta usciti di chiesa è tutto finito. Il precetto festivo è l’inizio:
il Vangelo deve essere vissuto ogni giorno, ogni ora, tutta la
settimana..Le belle parole non contano niente se non si mettono
in pratica.Ebbene, il caso vuole che ci sia pronta pronta
un’opportunità. Come forse sapete, un nostro compaesano, Bino
della Palazzina, è stato ricoverato all’ospedale per
un’infezione. Proprio ora, in tempo di mietitura. Ditemi un po’
come potrà la moglie, da sola e con i bambini da custodire,
mietere, mettere al sicuro il grano…salvare il lavoro di un anno!
Ebbene, io avrei un’idea che anche voi sicuramente avete.
Darle una mano. Sì, allora siamo tutti d’accordo. Domattina,
prima delle sei, ci troviamo tutti davanti alla canonica, per raggiungere
insieme la Palazzina e dare una mano per la mietitura.
Mi raccomando: ognuno porti i propri arnesi: falce, falcetto,
lama, ecc.”
Ancor prima dell’ora fissata, un folto gruppo di parrocchiani
era già in attesa davanti alla canonica. Quando sulla porta
comparve don Raffaele, sembrava il maestro che si rivolgeva
ad una numerosa scolaresca. E, come il maestro, incominciò ad
impartire ordini: “Ognuno venga a prendere la propria colazione”.
Già don Raffaele aveva preparato per ciascuno un pacchetto
(pane, formaggio, salame, ecc.). Sapeva benissimo che la
moglie di Bino, davanti a tutta quella gente venuta per dare un
aiuto, si sarebbe trovata in grande difficoltà. A mezzogiorno,
come avrebbe potuto dare una pur minima colazione a tutti.
Non avrebbe potuto operare la moltiplicazione dei pani. Don
Raffaele aveva previsto tutto, e, con quel provvidenziale pacchetto
alimentare “ad personam,” aveva risolto il problema nel
migliore dei modi.
Quando ognuno ebbe la sua razione, il parroco si mise
alla testa del gruppo e, come in processione incominciò a guidare
i parrocchiani-mietitori verso la meta.. Attraversato il borgo,
il “Fosso” e la Chiesuola, la strada piano piano si snodava
tra il verde della campagna e già, lassù, si intravedevano i pini
della Palazzina. Nell’aria si respirava un non so che di festa,
allietata da un sole splendido; un evento che sapeva di rogazione
e di festa campestre.
Quando la comitiva raggiunse la casa di Bino, grande fu
la sorpresa e la gioia della moglie (Anita) e dei suoi bambini.
Senza indugio i mietitori si misero all’opera nei campi:
sembrava di assistere ad una vera organizzazione di lavoro pianificato,
tanta era la loro rapidità e diligenza. Su tutto, poi, emergeva
un clima festoso. Di solito la mietitura è sempre un
momento allegro. Ma in questo caso lo era doppiamente, perché
coniugava il risultato del lavoro con la solidarietà: uno dei
valori più alti dell’antica civiltà contadina (che rimpiangiamo).


LA MIA ESPERIENZA DI “ESODATO”

Ci sono parole che raggiungono una notorietà impensabile,
non per il loro merito o nobiltà, ma per
eventi casuali. Se ne potrebbe fare un elenco. Io mi limito a citarne
due: una più anziana: “tangentopoli” e l’altra più recente:
“esodati” (che mi è sottolineata in rosso dal computer; evidentemente
non la conosce ancora).
Di tangentopoli sono piene le cronache di parecchi lustri
e, pertanto, ormai conosciamo tutto. Quindi vorrei soffermarmi
su “esodati”. Non lo faccio così tanto per dire, ma perché
anch’io sono stato un “esodato”, anche se allora non s’era
ancora pensato a coniare ufficialmente tale termine. Mi pare
dunque il momento di raccontare la mia storia, facendo prima
una breve premessa: soltanto vivendo sulla propria pelle una
sofferenza, la si può capire appieno.
Correva l’anno 1992, l’azienda in cui lavoravo s’era
venuta a trovare in grave difficoltà e, pertanto, mise in atto una
manovra per snellire il suo organico. Chi non aveva ancora raggiunto
l’età pensionabile, poteva dare le dimissioni beneficiando
di un congruo incentivo che si sommava alla indennità di
licenziamento maturata contrattualmente. Poiché conoscevo
bene la situazione dell’azienda, decisi di avvalermi dell’ incentivo
e così, il 30 giugno 1992 lasciai il lavoro. Oggi, a distanza
di tanti anni, posso dire d’essere stato fortunato, perché sono
uscito di fabbrica in armonia: in pace con me stesso, in pace
con i colleghi, in pace con l’azienda. Ma più di una decisione
fortunata, penso che sia stata opportuna: avevo capito che era
giunta la mia ora. Non bisogna mai illudersi che l’aver dato tut-
to, un’intera vita di lavoro, possa essere una ragione sufficiente
per essere salvati dalla crisi. Qualche collega, che si trovava
nella mia situazione, pensava erroneamente d’essere risparmiato.
Non fu così. In parole povere, gli fu fatto capire la realtà: “o
te ne vai, o finisci in cassa integrazione”. Finire in cassa integrazione
negli ultimi anni di lavoro, voleva dire vedersi diminuire
in modo drastico la pensione (allora si calcolava sugli ultimi
cinque anni di lavoro).
Entro ora nel vivo della questione. Ero uscito da poco
più d’un mese, quando il governo d’allora, nell’intento di fronteggiare
una grave crisi economica, prese alcune decisioni drastiche.
Appresi per radio quella che mi coinvolgeva e che pressappoco
diceva così: “…da oggi in poi sono state bloccate tutte
le pensioni di anzianità…” Questa notizia ci colpì come un
fulmine a ciel sereno, mettendomi in agitazione. Riascoltai tutti
i notiziari sia radiofonici, sia televisivi. Eh, sì, non c’era dubbio,
la norma era diventata immediatamente applicabile. Il
giorno successivo mi recai alla sede INPS e, poi, del sindacato,
per avere notizie più dettagliate. Mi ricordo che anche loro non
seppero darmi ulteriori chiarimenti: avevano soltanto il comunicato
governativo ufficiale. Una cosa però mi dissero:
“…secondo quanto scritto in questo decreto, lei non ha più diritto
ad avere la pensione di anzianità”. Vi lascio immaginare
con quanta angoscia tornai a casa. La mia famiglia iniziò a vivere
uno dei momenti più tormentati della sua esistenza. Spesso,
io e mia moglie ci svegliavamo nella notte e il pensiero era
costantemente fisso a quella amara, inedita esperienza che stavamo
vivendo. Ci chiedevamo che cosa si potesse fare; ma più
i giorni passavano più si acuiva la nostra ansia per il futuro,
senza trovare una risposta. Quella drammatica situazione di
“esodati”, senza lavoro e senza pensione, coinvolgeva però anche
altri. Le cronache ci riferirono di alcune terribili tragedie,
come quella di una signora di Prato che, lasciato il lavoro per
andare in pensione di anzianità, si trovò improvvisamente sen81
za lavoro e senza pensione: travolta dalla disperazione, si uccise.
Io, noi, che cosa potevamo fare? Avremmo voluto protestare,
gridare, ma con chi? Non certo con chi era spettatore e
nullità come noi. Ebbi allora l’idea di scrivere, scrivere e scrivere
il mio stato d’animo a tutti coloro che occupavano un posto
nella politica e nelle istituzioni. Non ho contato le lettere
inviate, sicuramente tante. Con le loro copie realizzai un libro
cui diedi un titolo emblematico: “Lettere per un decreto”. Confesso
che furono pochi coloro che mi diedero una risposta che
dimostrava attenzione, sensibilità al mio problema; ad eccezione
di un parlamentare della nostra zona: l’onorevole Pietro
Zoppi. Sì, fu Zoppi, segretario della Camera dei Deputati, a tenermi
informato sia con lettera, sia con telefonate, delle proposte
fatte per apportare modifiche al decreto legge. Ricordo ancora
la sua gioia nell’informarmi che era stata approvata la
norma che esentava dal blocco le pensioni di anzianità di coloro
che stavano pagando i contributi volontari. Già, non ho detto
che dopo le dimissioni, avendo ancora scoperti cinque mesi per
arrivare ai 35 anni di contributi, inoltrai domanda all’INPS e,
quindi, dal mese di luglio 1992 fino a dicembre versai regolarmente
i contributi volontari (che superarono abbondantemente
il milione di lire). Quei versamenti volontari hanno consentito
alla mia pensione di anzianità di essere esentata dal blocco.
L’esistenza è fatta di momenti vissuti che, nel bene e
nel male, lasciano il segno. La perdita del lavoro, e con esso di
ogni mezzo di sostentamento che consente di vivere con dignità,
è senza dubbio una delle esperienze più umilianti, deprimenti,
che un essere umano possa provare. Sì, il lavoro è un elemento
basilare della vita. Non per caso il primo articolo della
nostra Costituzione pone il lavoro come fondamento della nostra
società.


LUNGO LA VIA AURELIA

Cara Aurelia, quasi certamente non puoi ricordarti di me.
Come potresti! Nella tua vita di secoli e millenni, neppure
tu sai quanti anonimi viandanti hai visto passare, come le acque
del Vara e della Magra verso il mare. Che cosa potevi fare!
Non certo segnarli uno per uno. Forse hai dovuto prendere nota
soltanto dei potenti che, nel bene e nel male, hanno lasciato un
segno lungo il tuo cammino. Ma se tu non conosci il nome, né
la vita di tanti anonimi viandanti, loro, invece, molto conoscono
di te. Sì, anch’io, ti conosco bene: sei stata la mia strada per
tanti anni, quando vivevo nel quartiere della Chiappa1. Ma anche
oggi, qui a Prati,2 mi sei vicina: sotto la mia finestra ancora
scorri. Certo, ora, sei molto più tranquilla di quando, nel dopoguerra,
tutto il traffico per Genova sfibrava la tua vita. Eppure,
mai ho udito un tuo lamento.
Perché sono tornato? Per raccontarti la mia storia e ripercorrerla
con te, iniziando proprio qui, da questa bianca pietra
miliare del Negrao. Abitavo poco distante: al numero 102
(cambiato poi in 360). Ma, come ben sai, anche alla via era stato
cambiato il nome. Aurelia era divenuto Genova. I nostri parenti
in Lunigiana, però, quando ci scrivevano (a Natale e Pa-
1 Quartiere popolare della Spezia attraversato dalla via Aurelia, ai piedi del
passo della Foce.
2 Frazione del Comune di Vezzano Ligure attraversata dalla via Aurelia.
squa) continuavano a mettere via Aurelia. Eppure, senza problemi
la posta, allora, ci giungeva.
Perché le città cambiano il nome delle strade? Non so…
forse per riaffermare la loro sovranità. Cambiare, poi, è il verbo
prediletto da chi rimpiazza altri nella gestione del potere. E, così,
anche mutare il nome delle vie rientra nel disegno d’ogni
cambiamento.
Ma tu, cara Aurelia, non ti dolevi se eri diventata
via Genova e, poi, via Fiume, prendendo via via altri nomi attraversando
la città. In fondo, passato il valico del Termo, uscita
dal recinto urbano, riprendevi pur sempre il tuo antico nome,
mitico sigillo di tuo padre, il romano censore Aurelio.3
Dunque, sono tornato per raccontarti la mia storia, che
si lega a te. So che tu mi ascolterai. Un tempo, gli anziani erano
ascoltati: erano il libro che i giovani sfogliavano felici. Oggi,
non più. Altri maestri ne hanno preso il posto. Per loro, il passato
è diventato una cosa vecchia, che non interessa più. Così,
noi anziani, spesso ci ripetiamo tra noi le nostre storie.
Ero bambino, quel primo giorno dell’ottobre ’46 quando
iniziai a percorrerti per giungere alla scuola e, poi, tornare a
casa. Allora non c’era lo scuolabus: sempre a piedi dovevamo
andare, sotto la pioggia o il sole. Eppure, non mi pesava la cartella;
saltavo felice come un grillo. Anche tu eri lieta di sentire
i nostri passi; a volte chiudevi perfino un occhio: sul marciapiedi
ci lasciavi giocare (al pampano, al salto con la corda, alle
figurine, ai tappini)4. Per noi bambini di periferia non erano ancora
nati i parchi con lo scivolo, le altalene, le giostre e neppure
il campo di pallone; dovevamo noi inventarci i giochi. Invero,
a volte, anche un po’ pericolosi, come quando sfrecciavamo
incoscienti giù per i tornanti della Foce con i nostri bolidi.5
3 Aurelio Cotta, console romano, ideatore ed iniziatore della strada, nel 239
a.C.
4 Giochi realizzati dall’inventiva dei bambini.
5 Carretti costruiti con tavole e quattro cuscinetti a sfera.
Cara Aurelia, sì, da qui, da questa tua colonna miliare
del Negrao voglio, dunque, riprendere il cammino insieme a te.
Ogni viandante non ama andare solitario, ma percorrere la strada
con qualcuno a fianco, con cui scambiare una parola; per
sentirsi più sicuro in compagnia.
Ho lasciato l’auto qui vicino, al capolinea del filobus,
perché voglio andare finalmente a piedi. E’ bello camminare,
muoversi con le proprie gambe e, passo per passo, riscoprire
ogni cosa intorno. Un piacere che la fretta, la dannata nevrotica
fretta d’ogni giorno, ha cancellato spesso dalla nostra vita.
Ora, che ho incominciato il percorso, mi sento un po’
come l’antico pellegrino che, bisaccia a tracolla e bordone
stretto nella mano, camminava, camminava in cerca della meta.
Sì, anch’io ricerco la mia meta. So dove si trova, e che ad essa
mi potrai condurre. Altro non voglio dirti adesso. Quando saremo
giunti ti svelerò il segreto.
La strada è lunga, ma noi non siamo in gara. Non siamo
legati a tempi e classifiche. Siamo completamente liberi, come
l’aria. Abbiamo lasciato a casa perfino l’orologio. Certo, anche
camminare è fatica, soprattutto quando non si è più allenati. Peraltro,
non sono facili i tornanti che portano alla Foce6. Ben lo
sapevano gli autocarri stracarichi che, nel dopoguerra, lentamente
arrancavano sulla ripida salita, trascinando aggrappati
alle loro sponde non so quanti ciclisti. E ben lo sapevo anch’io
che, più volte, da ragazzo, tentai in bicicletta di conquistare il
passo, ma purtroppo senza mai riuscire nell’impresa. Capii presto
che non ero fatto per la bicicletta: non avrei mai potuto emulare
Coppi e Bartali. Già, il ricordo mi riporta adesso a
quando passava il Giro d’Italia. Che festa! Quel giorno, perfino
la scuola era in vacanza. Innanzi tempo, c’incamminavamo a
frotte sull’erta per occupare un posto che ci consentisse di vedere
meglio. Di solito ci fermavamo alla Gira dei pini: da lì si
poteva avere una più ampia visione di alcuni difficili tornanti,
6 Il passo della Foce, 240 metri di altitudine, tra la Spezia e Riccò del Golfo.
ove i girini erano costretti a rallentare l’andatura. Così, noi, avevamo
il privilegio di vederli più a lungo. L’arrivo dei corridori
era preceduto da un imponente carosello di auto e di moto
dell’organizzazione e della pubblicità che lanciavano volantini,
pieghevoli e cappellini da sole (con visiera) davvero benvenuti.
Anch’io mi gettavo nella mischia per prenderne qualcuno.
Eccoci arrivati “alla polveriera”7 ove sorgeva la Casa
Cantoniera dell’ANAS, ora in abbandono. Venivamo volentieri
qui, perché, dopo aver allargato la sede stradale, avevano costruito
una specie di piccolo giardino con alcune panchine di
pietra. Era quasi un belvedere che si apriva sulle case, da dove
si riusciva a intravedere l’azzurro placido del mare. Per questo,
nella serata della prima domenica d’agosto, il luogo si affollava
di spettatori come un teatro, per vedere il suggestivo spettacolo
dei fuochi pirotecnici che, solcando festosamente il cielo della
notte, chiudevano la festa del mare.
Siamo giunti al passo della Foce. Fermiamoci un attimo.
Godiamoci questo meraviglioso spettacolo. La Spezia e
l’incantato Golfo dei Poeti sono sotto di noi, magia di un sogno
come un quadro di Fossati.
Più leggero si fa il passo nella discesa che ci porta a valle
verso San Benedetto. Sulla sinistra ancora rivedo i monti e i
boschi cari a mio padre e, in fondo alla vallata, i verdi prati della
Sprugola. Spensierati ricordi della giovinezza riaffiorano: la
festa campestre del Primo Maggio, gli amici, i giochi, i suoni e
i canti, le tovaglie distese sull’erba con le fette di torta Pasqualina,
il canestrello di Brugnato, il fiasco con il vino coperto dal
bicchiere. Da poco tempo avevo acquistato il mio primo nuovo
fiammante ciclomotore (un “Laverda” a quattro tempi, comprato
a rate, firmando le mie prime dodici cambiali) e, così, felice,
potevo non soltanto scalare il passo della Foce, ma aggregarmi
alla comitiva degli amici in visita ai paesi ed alle feste della
Val di Vara.
7 “Lombacca”: questo il suo vero nome.
Ecco San Benedetto, il primo paese che attraversiamo;
più avanti il Debbio.8 Lo ricordo perché era la terra d’origine di
Giuliano, un amico dell’infanzia: a lui donai il motorino, quando
comprai la “Cinquecento”. Sì, la quattro ruote era ormai diventata
necessaria. Eravamo in due e presto saremmo diventati
in tre: avevo messo su famiglia. Andammo ad abitare altrove,
ma tu, Aurelia, e la Val di Vara, siete rimaste il percorso preferito
per le nostre vacanze. Sì, in quei tempi, anche noi, potevamo
andare in vacanza.
Ecco Riccò del Golfo, il paese di mio padre. E noi, con
lui, tutti insieme tornammo più volte alla festa del paese: “Santa
Croce” e al Santuario della Madonna dell’Agostina. Era gran
festa un tempo: come Natale e Pasqua. Diceva mia madre:
“Neppure le rondini oggi vanno di cerca in cerca, né le api di
fiore in fiore. Si fermano le nubi e il rosignolo tace. Benedetto
è questo giorno di silenzi e di preghiere”. Ancora vedo il santuario
antico nascosto tra i castagni e, nel sagrato erboso, i pellegrini
venuti da lontano. Ancora sento, nello stormir di fronde,
un semplice suono di campana perdersi nell’aria splendida
d’azzurro e tenera d’incensi.
Ecco Pian di Barca. Più volte svoltammo a sinistra verso
Pignone per giungere poi, attraverso la strada dei santuari,
alle Cinque Terre, a questa nostra terra splendida, aspra di rupi
a picco sul mare e gentile di vigneti squadrati a scala, pietra su
pietra, verso altezze serene. Terra solitaria, selvaggia di garighe
fiorite esposte all’abbraccio dei venti; ridente di borghi annidati
a valle o innalzati al cielo tra rocce e marine trasparenti consumate
dai millenni.
Siamo giunti a Case Lodola, frazione del Comune di
Beverino. Qui, dobbiamo fermarci e fare un minuto di silenzio.
Innanzi a noi c’è una lapide posta a ricordare la storia di un
8 Frazione d’antica origine contadina.
martirio. Un nome,9 la data di nascita e di morte. Nulla so di
questa vita recisa nel fiore degli anni, per essersi opposta
all’invasore, al sopruso, alla funesta catena d’odio e di rovine.
Nulla so di questo combattente clandestino, delle sue attese,
delle speranze, dei suoi sogni. Di lui solo una frase parla: caduto
per la Libertà. Libertà, libertà, liberta! Ovunque oggi sento
ridondare questa parola: tutti se ne sono appropriati; se ne ammantano
come se fosse esclusivamente vestito loro. Ma che cosa
è la libertà? Soltanto questo ragazzo può dirmelo: “La libertà
è una bianca colomba che sparge il seme della pace. Non
divide la libertà, ma unisce; non mette il bavaglio, ma dà voce
anche ai senza voce; non compra il silenzio la libertà, non intimidisce,
né insulta, ma ascolta. La libertà non è soltanto esprimere
il pensiero; è giustizia, è affrancamento dal bisogno.
La libertà non è un regalo, ma faticosa conquista di ogni giorno.
E ogni giorno deve essere difesa.”
Ecco Padivarma con il Vara e con il ponte. Quante volte
l’abbiamo attraversato! Anche quando, dopo l’alluvione, il passaggio
era provvisorio su tavole di legno. A est, poco distante,
la bianca spiaggia ove il fiume, placido nell’ansa, rinfrescava i
nostri pomeriggi dell’estate. Bello è ancora il Vara; specchia
nell’acque chiare boschi di castagni, pini e pioppi sulle rive.
Buono è ancora: disseta greggi e terre, città e villaggi, concede
ore serene. Io, pure, seduto sulle ghiare, m’incanto alla sua voce
come nei remoti tempi, quando donne inginocchiate, accomunate
in canto, battevano i panni sulla pietra.
Ho parlato troppo, mi si è seccata la gola: ho sete. Più
avanti dovremmo trovare una sorgente: la fontana del Papa. Lì,
secondo la tradizione, si sarebbe dissetato il pontefice.10 Ma,
purtroppo, non trovo più la fonte. Ritrovo, invece, il ponte di
9 Pagani / Glicerio / 31.5.1926 – 6.12.1944 / Medaglia d’argento al Valore
militare / caduto / per la Libertà.
10 Pio VII, prigioniero ed ostaggio di Napoleone in transito.
Stagnedo. Mi affascinava quello strano ponte sospeso, come
quelli che avevo visto in qualche immagine d’America.
Viaggiare ha comportato sempre qualche rischio. Anche
oggi, seppure d’altro genere. Un tempo, alla strada si legavano
antiche storie di briganti, gettando un’ombra di paura nel cuore
dei viandanti, non soltanto nelle terre del sud ma anche qui da
noi. Tu, Aurelia, conosci, meglio di tutti, i fatti più remoti,
quelli che hanno ormai quasi un sapore di leggenda. Ma leggenda
certo non fu la rapina di Sandro,11il futuro Presidente di
tutti gli Italiani. Già, proprio in questa zona, a Boccapignone,
fu rapinato da tre individui armati e mascherati. Gli portarono
via tutto: il portafogli, l’orologio, la valigia.
Ma, ancor più, avevano triste fama i banditi del Bracco.
Io ne ho conosciuto uno; almeno così dicevano che fosse stato.
Lo chiamavano il “manzo”, forse perché aveva una corporatura
imponente. Lo guardavo con un certo timore e con la curiosità
di bimbo, quando lo incontravo al lavoro lungo la via. Infatti,
dopo aver scontato la condanna, lavorava come scalpellino delle
pietre, che erano poste a margine del marciapiede di via Genova:
un lavoro socialmente utile, si direbbe oggi.
Siamo giunti ormai quasi a Borghetto Vara. Lo sguardo
vola alto a destra verso i monti. Ritrovo il Coppigliolo, il monte
delle nostre escursioni, quando negli anni ’70 andavamo in
vacanza ai Casoni di Suvero. Momenti sereni ritrovo nel ricordo.
Dalla pineta ombrosa teneri di verde i prati salgono ai Casoni,
verso crinali aperti ai monti di Liguria e di Toscana. Dal
Coppigliolo al Civolaro, nascono fragili nubi e si disfanno
nell’azzurro terso; scendono freschi silenzi nell’estate chiara
rotti solo, di tanto in tanto, dal suono di campani di greggi al
pascolo, e di mucche e di cavalli bradi stagliati nel cielo. Una
bianca croce, un santuario di pietra, una baita degli Alpini, la
fattoria al limitar dei prati segnano l’antica civiltà della natura.
11 Sandro Pertini fu rapinato sulla via Aurelia, a Boccapignone, il 30 maggio
1946.
Ormai lontani sono i rumori, le vie convulse, le ciminiere cupe.
Adesso, in questa pace, è facile sognare. Così, ampio si fa il respiro
e, nel profumo di montagna, serena l’anima rinasce.
Ecco un altro villaggio attraversato: Pogliasca. Lungo la
via, seduti sul muretto, al fresco, alcuni anziani conversano.
Immagine consueta di tanti nostri antichi borghi. Poi, si fa ripido
il cammino che ci conduce alla località Termine, ove
s’innalza un minuscolo armonioso tempio, ad indicare al viandante
la vicinanza del Santuario di Roverano, uno dei luoghi di
fede più cari della Val di Vara. Qui, alcuni anni fa, anche noi
“ragazzi della Chiappa”12 ci ritrovammo per uno dei nostri annuali
incontri estivi.
Siamo ormai giunti a Carrodano. Riposiamoci un attimo,
prima di riprendere il viaggio che, tutto in salita, ci porterà
a Mattarana. Vieni, Aurelia, voglio portarti a salutare la Scuola
elementare. Qui ero venuto a parlare dei tuoi alberi, che freschi
t’accompagnano per tutto il tuo cammino. Non ci sono più i
bambini d’allora; ormai sono diventati grandi. Eppure, chissà…
forse ancora si portano in cuore l’eco di quel canto: “Cari
alberi, amici dell’infanzia, con un fraterno abbraccio tutti insieme
vorrei stringervi. Tu, olivo, ricurvo e saggio, vestito
d’anni e di licheni, sacro a civiltà di popoli e caro al cuore della
pace. Tu, castagno, che generoso ti spogliasti d’ogni avere
per farti pane consacrato e placare la mia fame. Tu, pino, che
profumasti d’incenso e canti il mio Natale e ancora anelito
m’infondi di quella serenità lontana. O alberi miei cari! Sempre
vi chiamerò per nome come fratelli uniti nell’armonia della
famiglia; oggi che l’uomo scorda spesso i suoi natali e per un
pugno di nulla tradisce valori eterni: perfino l’amicizia. Mai,
12 Associazione che riunisce i ragazzi del quartiere della Chiappa che nel
1955 frequentavano l’oratorio di San Bernardo, diretto da don Luciano Ratti.
Dal 1979 questi “ragazzi” si ritrovano annualmente in un giorno
dell’estate per rivivere insieme, con lo stesso entusiasmo, i ricordi di quei
lontani tempi.
mai s’è udito che un albero tradisse! Mai che fosse d’offesa al
cielo e di dolore all’uomo”. Adesso mi adombra un velo di tristezza.
Penso agli immensi roghi che, altrove, in questa calda
estate, hanno fatto scempio di boschi e di foreste: nuovo olocausto
di una follia omicida, Scheletrici rami e tronchi anneriti,
sterpaglia strinata, odore di tizzoni arsi dal fuoco: altro non è
rimasto.
Cara Aurelia, infine, siamo giunti a Mattarana. Sono un
po’ stanco, ma felice. Qui si conclude il mio percorso. Ti ringrazio
per avermi fatto compagnia, per aver ascoltato con pazienza
la mia storia. Ora ti svelo il mistero, il perché di questo
viaggio. Le stagioni passano: va l’una e l’altra subito
s’appresta. Vanno gli uomini e gli eventi, le speranze e i sogni.
Resta solo la memoria e la paura di vederla scomparire nella
nebbia. Per questo ti ho raccontato la mia storia. Vorrei che
qualcosa restasse, che tu la custodissi, insieme all’ultimo ricordo
di un lieto giorno: domenica 2 settembre 2000. Al Parco dei
tigli, nel verde qui vicino, la Musa celebrava la sua festa; per
questo mi aveva chiamato. Con gioia avevo accolto quel inatteso
invito come il più bel dono. Scorrono limpide le immagini
come il sole di quel giorno. Riconosco il volto degli amici, risuonano
le voci e i canti. Commosso riascolto l’omaggio di
Ferruccio.13
Adesso, come allora, vorrei portare a questa terra generosa
il mio saluto e, nell’augurio del ritorno, innalzare ancora
quel lontano canto: “Val di Vara, vorrei tornare a te un giorno
quando fioriranno le ginestre. Vorrei innalzarmi col respiro
campestre dei tuoi fiori: salire nel vento leggero del mattino
oltre le immense distese dei tuoi boschi, verso il mistico silenzio
di santuari antichi elevati al cielo come altari. Vorrei lanciarmi
nell’azzurro, sui tuoi paesi e le tue valli: sfiorare con il
brivido d’un volo ridenti campanili e sperduti casolari. Vorrei
discendere il corso nascosto dei tuoi rivi, ascoltare il sommes-
13 Ferruccio Battolini, critico d’arte e letterario spezzino.
so mormorio dell’acque e immergere le mani nel fresco rapido
fluire. Vorrei posarmi sui bianchi ciottoli del Vara placido
nell’ansa: tremulo specchio di pioppi e di pensieri evanescenti
come sogni. Vorrei sostare a sera sull’aia e a ridosso d’una
volta antica: riscoprire il sapore della vita. Val di Vara: verde
terra di Liguria, mistica, appartata, solitaria. A te mi legano
l’amore per la vita e il senso dell’eterno; a te che oggi, come
una ginestra in fiore, m’inondi l’anima di luce sull’inviolato
sentiero dei ricordi”.


INDICE


Terra promessa
Alla mia patria
Rio secco
Siesta
Ai castagni
Stagioni
Tu che portavi la prima mimosa
Ma sarà ancora la tua voce
Olocausto
Il tempio della vita
Per non dimenticare
Nel bianco greto della valle
Il sangue di Abele
Rimani almeno tu, poesia
Il pane del perdono
Jobhel
Alla cometa
Casa del biancospino, addio
Un micio, una storia
Il mio amico Mohamed
Le foglie dei castagni
Poesia ragione di vita
Il grillo e la formica
La scampagnata di Pasquetta
Il mio primo giorno di lavoro
Pensieri e ricordi dell’ultimo giorno
Avanti c’è posto
Mietitura a Caprigliola
La mia esperienza di “esodato”
Lungo la via Aurelia


Paolo Bassani è nato alla Spezia il 24 aprile 1940. Maestro del Lavoro, poeta e scrittore. Per il suo impegno letterario è stato nominato Cavaliere dell’ “Ordine al Merito della Repubblica Italiana”. E' vincitore di numerosi premi nazionali di poesia: “Lorenzo Viani”, "Val di Vara 1980","Giovanni Fantoni", “Candia”, “SS: Croce”, "Gabriele Rossetti", “Città di Montignoso”, "Val di Vara '95", "Premio della Resistenza", “Antonio Taddei”, “L’Ambiente 1996”, "Cesare Orsini", "Olinto Dini", “ Val di Vara 1997” “San Pio X”, “L’Ambiente ‘99”, Premio in onore della Resistenza 2004 e 2005", Premio “25 Aprile, pagine della nostra storia” 2006, “Cesare Orsini 2006”,Premio Internazionale di Letteratura per la Pace Universale “Frate Ilaro del Corvo 2008”, Premio Nazionale di Poesia “Canta il sogno del mondo” 2010. Ha ricevuto riconoscimenti importanti come il "Premio Presidente della Repubblica per un'opera dedicata alla patria" e la medaglia del "Lerici Pea". Nel 1993 vince il Premio per la Pace "Riccione/ Satyagraha" per la narrativa. Nel 1997 il concorso Rai "Un racconto per Televideo". Bassani è autore di alcune raccolte di versi:"Immagini e Fremiti" ( Ed. Zappa 1977), "Sentiero nel meriggio"(Ed. Zappa 1980),"Dillo con la poesia"( Ed. Zappa 1981), "L'elicriso" (Ed. Europa 1988) - premiata con medaglia d'oro al "San Domenichino" 1989, "Lungo la via Francigena” (Ed. Alpicella 1997) - vincitrice del "Val di Vara 1997”, “Lapoesia del mare” (Ed. Helicrisum 2001), “Gli alberi. amici generosi, radici della nostra storia” (Ed. Helicrisum 2002), “Verso il cielo e le stelle” (Ed. Helicrisum 2003), “Nell’orma di un passo” (Ed. Helicrisum2004), "Nel tiepido sole d'aprile" (Ed. Helicrisum 2005), "Nel bianco greto della valle" (Ed. Alpicella 2006), "Incontro" (Ed. Helicrisum 2007), "Dalla a alla j" (Ed. Helicrisum 2007). Bassani ha scritto anche opere di narrativa: “I miei racconti per Televideo” (Ed. Lombardi 1998), "Le foglie dei castagni" (Ed. Helicrisum 2003), “Fotosintesi” (Ed Helicrisum 2005), "Le mie storie di quartiere" (da Ed. Litoeuropa 2007). Ha anche realizzato alcune audio-cassette e DVD di poesie e narrativa: "Poesia come musica" (lettore Lucio Caratozzolo), "Consonanze", "Le foglie dei castagni", “I miei racconti per Televideo”, e videocassette: "Lungo la Magra" ,”La poesia del mare”, “Gli alberi”. Numerose poesie di Bassani sono apparse su riviste letterarie, su pubblicazioni molto note (come “Il Calendario di Frate Indovino”), su antologie e volumi di prestigio (come "II Sigillo" di Mondadori , divenuto testo ufficiale del Museo del Sigillo) o inserite in documentari video ed opere multimediali; alcune sono state incluse in programmi scolastici o musicate, come la cantata “La luce della vita” composta da Stefano Baldi.
Bassani è stato inserito in “La Spezia nella poesia del 900”: lo studio “Progetto Giovani ‘93” realizzato dall’Istituto Domenico Chiodo, e la “STORIA della LETTERATURA SPEZZINA e LUNIGIANESE” a cura di Giovanni Bilotti - profilo critico-storico della poesia e della narrativa spezzine.
Bassani partecipa alla vita culturale collaborando a riviste letterarie, a concorsi di poesia ove è membro giudicante; è stato chiamato a tenere incontri di poesia nelle scuole, come il progetto di formazione triennale “IOMIFORMO” promosso dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune della Spezia e il piano di studio “I COLORI DELLA POESIA” dell’Assessorato alla P.I. del Comune di Santo Stefano di Magra. Bassani fa parte di istituzioni culturali (Accademie, Biblioteche). Il Comune di Vezzano Ligure più volte ha reso omaggio alla sua opera poetica. Nel 1997 è stato presentato a "La Versiliana", presso il “Caffè dei Pinoli”.
La poesia e la narrativa di Bassani hanno ricevuto significative testimonianze di noti critici e letterati come Giorgio Barberi Squarotti, Felice Ballero, Egidio Banti, Ferruccio Battolini, Giuseppe Benelli, Casimiro Bonfigli, Francesco Loris Capovilla, Mario Cagetti, Giuseppe L. Coluccia, Giuseppe Conte, Valerio P. Cremolini, Tullio De Mauro, Sirio Guerrieri, Mario Luzi, Almo Paita, Nazario Pardini, Giovanni Petronilli, Gianfranco Ravasi, Vittorio Sabia, Giuseppe Sciarrone, Gian Antonio Stella, Paolo Vanelli, Amelio Vivaldi, Franca Zambonini e artisti come Pietro Annigoni, nonché di quotidiani, periodici ed emittenti radio-televisive. Paolo Bassani vive a Prati di Vezzano Ligure (La Spezia)
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1 commento:

  1. Saggio puntuale e di pregnante esistenzialismo "poetico".
    Miriam

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