martedì 1 luglio 2014

N. PARDINI: LETTURA DI "LA SOLITUDINE DEI METRO'", DI C. CONSOLI

Carmelo Consoli collaboratore di Lèucade

Recensione
a
Carmelo Consoli: La solitudine dei metrò
LCE Edizioni. Castelfranco Veneto. 2014





Sei nella solitudine dei metrò
quando invece pensavi di abitare
nel grembo caldo della terra.
(…)
E cerchi un sorriso, una carezza
che ti sfiori, ti perdi
dipanando il filo arrotolato del cuore
nel groviglio delle linee elettriche,
nel grido di ruggine dei treni… (La solitudine dei metrò).

Poesia nitida, densa, umanamente intrigante, i cui versi, con perspicua accentuazione visiva, fanno di tutto per concretizzare le emozioni scatenate dall’impatto con una verità di proteiforme valenza emotiva. Un realismo trattato in tutte le salse, e scandagliato in tutti i selvaggi rovi i cui pungiglioni graffiano un’anima sensibile spersa nella loro selva. E fa già da prodromico avvio la citazione testuale che si pone come momento incipitario con valenza eponima. La realtà, la fuga, gli sprazzi di naturismo ora sottile e pacato, ora luminoso, rifugiano il malum vitae, la condizione umanamente disumana di una società fredda e convulsa dove uno squarcio di cielo, spesso, fa da ristoro ad un poeta alla ricerca di una Bellezza, materiale e spirituale, di cui sente il bisogno.  
Affermava Thomas Eliot: “La poesia è connaturata all’umanità: il vero poeta assimila e trasfigura, lo scriba si limita a copiare”. E qui si può parlare di vera e generosa trasfigurazione, dacché il poeta ha vissuto e vive i vari momenti che hanno inciso sul focus del suo canto. La sua non è certo la descrizione pedissequa della realtà che ha di fronte, ma, piuttosto, la raffigurazione di immagini che, sedimentate, si rovesciano sul foglio intinte del suo pathos. Un canto personalissimo infoltito di motivazioni civili, di riflessioni su una società estremamente liquida, sfuggente, in cui persino i ricordi stentano a trovare spazio; dove tutto è precario, in vertiginoso movimento; dove viene accantonato il tempo degli affetti, fagocitato da un modus vivendi a dir poco baumaniano; un mondo di viandanti sperduti, direbbe Cardarelli. Sensazioni che si declinano in stati d’animo di un esistenzialismo di memoria calviniana e di oggettiva compartecipazione per la loro universale valenza. Ci si trova di fronte ad una realtà per cui viene da chiederci se il progresso è questo; o se invece è stato tradito in base a quel principio sacrosanto Galileiano secondo cui è tale solo quando è a beneficio degli uomini.


La solitudine dei metrò, il titolo. Una plaquette divisa in tre parti: Nel grigio dei palazzi, Armonie e dissonanze-la vita in concerto, L’amore strepitoso. Sì, solitudine, malinconia, ma quella giusta, sfiorata, per una valida resa poetica; dolore, anche; ma amore, e trasalimento per quei barlumi di Bellezza che ancora permangono e ancora di più spiccano in questo mondo scarso di meraviglie, ma ricco di diseguaglianze, di rumori assordanti, di bigi colori ad uccidere il canto di un’alba che maschera la vera città.       
        
Si parte dalle minuzie, dalle piccole cose, che poi si fanno grandi questioni in un realismo lirico di polisemica significanza, di perspicua intensità visiva, di cui si era fatto interprete Aldo Capasso, influenzando la  metà del novecento letterario:


dai
Suonatori di strade
(…)
Due a suonare vecchie melodie,
uno a raccogliere monete
da un cielo di persiane grigie.;

a
La città dei poveri
(…)
La città dei poveri
vive nel cuore della sera
si annida nelle mense della Caritas,
riposa dentro i cartoni
al riparo dai palazzi.
(…)
Già mi vedo anch’io con loro;
vorrei stare accanto a Fuffy,
buffo da morire, con le zampe alzate
e un piattino tra i denti.;

dai muri colorati d’amore, al volto triste della città del bar della stazione;

dal Telegiornale primo:
(…)
Se guardi sai già che starai male,
se spegni sei in un silenzio
bianco di pareti e non vedi
nemmeno il cielo dai palazzi.;

a Dalle pareti accanto:
(…)
Restano di quel cielo
calato dai soffitti poche gocce d’amore,
sciolte nell’amaro dei giorni,
nel macero dei sogni;

fino a Il computer:
(…)
Quando la città dorme
Piero accende
ammiccanti sirene,
entra ed esce dal computer
quasi fosse in magico bazar.

Una descrizione struggente e meticolosa, dove gli ambienti supportano psicologie distrutte da un andare convulso che produce una società irrelata non più correlata; dove darsi la mano o guardarsi negli occhi  è per lo meno un fenomeno sempre più anacronistico e inconsueto, se paragonato ad una civiltà dove l’incontro e la collaborazione erano il pane quotidiano:

(…)
come quando vivere
voleva dire respirare l’infinito,
starsi a contare sulle porte,
quando non c’erano file continue,
guerre urbane e ognuno
aveva riflessi arcobaleno negli occhi
(…)
in un intrigo di oleandri e gelsomini (Altre fragranze).

Ed è qui che il poeta rivive, perdendosi nei profumi e nei canti di viottoli alla menta, di tornanti alle ginestre, di stelle azzurrine, di lucciole nell’aria. 
Un ossimorico travaglio, una via crucis di antitesi che fanno di questo poema un’ermeneutica danza di simbiotiche dicotomie. E d’altronde la vita tutta è alimentata dallo scandalo delle contrapposizioni, dall’eracliteo polemos fra gli opposti: giorno notte, buio luce, bene male, Eros Thanatos. Sta in questo equilibrio degli estremi la nostra vicissitudine terrena. E la vita è proprio un concerto di dissonanze. Esserci significa prenderne le due facce, viverne i due volti, con il pensiero e la coscienza della sua sacralità, e con la mente rivolta all’oltre, oltre quella siepe che fa da spartiacque fra il buiore e la luce. Non è detto che si smarrisca il sentiero di Grezzano dove il poeta ci accompagna con i suoi versi di euritmica musicalità:

Ci rapiva l’immenso di stelle.
Grezzano di notte,
stretta, lontana borgata dei sogni.
Tre case e campi d’avena
sul sentiero che saliva alla foresta       
ad un passo dalla luna,
dal canto dei lupi innamorati… (Grezzano di notte).

Non si tratta certamente di pastorelleria agreste, o di arcadico ozio letterario, ma dell’altra faccia dell’esistere: 

chiamalo sogno, utopia, miraggio, obiettivo o altro; io lo direi realtà pura dove ancora è possibile vivere e respirare quel profumo che sa di buono e di rimembranza. E’ lì che il sogno ci avvicina  alla contemplazione, ed è lì che l’anima rincasa dopo la sua fuga verso un incontro con persone care i cui volti permangono ritrattati nel suo etere:

Ciao Franca amata sposa
ti lascio tra Martina e Salvatore
altre vite, altre storie,
altri sogni rimasti negli occhi.
(…)
Vi lascio
al vostro parlottare di anime serene  
nell’attesa di vederci sbucare
dai quadrati, dalle file,
dalle pene della terra (Quadrato otto, fila settantaquattro).

                                                                              Nazario Pardini


25/06/2014

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