giovedì 11 settembre 2014

N. PARDINI LETTURA DI "LA DIMORA DEL TEMPO" DI SANDRA EVANGELISTI

Sandra Evangelisti: La dimora del tempo.
Biblioteca DEI LEONI. Castelfranco Veneto (TV).
2014. Pg. 64

Fenollosa Ernest Francisco afferma che “La poesia è l’arte del tempo”; mentre Alfredo Panzini  definsce i poeti “simili al faro del mare”. Perché iniziare con queste citazioni. E’ presto detto: primo, perché il tempo si fa attore principale in tutte le sei sezioni dell’opera, La dimora del tempo; secondo, perché, alla fin fine, dopo un’attenta lettura, risalta evidente uno slancio verticale della Nostra verso la luce, verso quegli orizzonti infiniti di cui un faro solitario non può altro che illuminare una piccola infinitesima parte. E quale analogia più calzante con la vicenda umana, fatta di tentativi, riflessioni, inquietudini, turbamenti, illusioni, disillusioni, misteri che tanto configurano le nostre ristrettezze di pascaliana memoria - “La vie est un milieu entre rien e tout” -; ristrettezze che dànno bene l’idea della insoluzione del nostro cammino, della irrequietezza esistenziale determinata dalla dualità fra l’espansione dell’anima e la pochezza dei vincoli terreni. Quindi il tempo, il luogo,  l’anima, il pensiero: “sed fugit, interea, fugit irreparabile tempus” (Virgilio: Georgiche III, 284). Quanto si potrebbe dire e citare! Ma il nocciolo della questione resta sempre il rapporto della nostra vicenda col correre del giorno, indifferente ad ogni nostro dubbio. “Dum loquimur…”, sì, mentre parliamo ci sfugge di mano l’attimo che stiamo vivendo. Né si può arrestare per guardarlo in faccia, e, a tu per tu, parlargli e chiedergli qualche soluzione o indicazione sulla sua inarrestabile corsa. Ma fino a che punto siamo coscienti di viverlo quest’attimo. Fin a che punto siamo consapevoli di vivere questo casuale e irripetibile momento. La dimora del tempo, questo il titolo della nuova plaquette di Sandra Evangelisti, pubblicata, con nota critica di Paolo Ruffilli, per i caratteri della Biblioteca dei Leoni, di Castelfranco Veneto. Un prodromico inizio, coinvolgente, intrigante, di proteiformi accostamenti disvelanti luci ed ombre, che fa della solitudine l’incipit della poesia eponima: Da questa solitudine. Ma la solitudine è l’atto basilare della meditazione,  del confronto dell’ego con l’altro di noi, della ricerca proficua dell’essere e dell’esserci, in funzione, proprio, dell’ora e del luogo, del quando e del perché: terriccio fertile di resa poetica. E pare che Sandra possieda nel fondo questa coscienza del vivere; uno stato interiore proiettato nel futuro con il fascino tormentato del presente: raggio di luce, natura senza incensi/ posso annegare nel buio. Quindi la Nostra non si preoccupa di fermare l’attimo, il momento, quel tratto impalpabile, inagguantabile che fa di tutto per non essere presente. Ma volge lo sguardo in fondo all’origine, sotto l’apparenza. Non certo una quiete, una staticità dove tutto tace. Ma una ricerca affannata, psicologicamente attiva e olistica  volta al tutto, all’insieme, alla pluralità esistenziale che tiene la valle del tempo. E c’è una risposta:

Dove pensavo ci fossero angeli,
ora vivo.
Alla dimora del tempo rimasto sospeso,
stagione di frutta e di viole.
Di annunci, di farfalle,
falene inattese (La dimora del tempo).

Un panismo conturbante, umanizzato, fattosi visività di tanti risvolti emotivo-sensoriali. Un altro aspetto questo della poesia di Sandra. Ricorrere alle configurazioni della Natura, della madre più antica, per volgerli  in tatuaggi del sentire.
Poesia forte, coinvolgente, schietta, contaminante, la cui intensa forza maieutica riguarda ognuno di noi per il messaggio oggettivo, universale, dove il verso, col suo procedere ondivago, multimetrico, si aggrappa con potenza significante agli input intellettivi. Uno spartito di polisemica significanza che fa della meditazione sul  diacronico succedersi della vita il punto focale della plaquette. E la vita c’è tutta in queste pagine con una perspicua incidenza di potenzialità creativa sui suoi perché. Sulle questioni più assillanti che la riguardano. E c’è il sogno, il volo del sonno, il perdersi delle memorie, il timore del tempo, le mani sfibrate dalla terra, avide di luce. Una metaforicità di intenso effetto partecipativo. Tante occasioni vicissitudinali che dal personale allungano il tiro verso la pienezza della nostra esistenza, verso traguardi improbabili, considerando i vincoli del nostro pensiero. Una pienezza vitale questa silloge, dacché tocca tutti i punti del vivere: il tutto, il niente, il pieno, il vuoto, la luce, il buio, la vita, la morte. Una pluralità di voci: Plenitudo vitae; filosofia proprio cara a un pensatore del primo Medioevo cristiano: Severino Boezio. Certamente con le dovute distanze ontologiche, considerando la complessità del pensiero della Nostra, tuffato nei meandri di una modernità che ci mette di fronte al mestiere di vivere. Questi, in La consolazione della filosofia, attribuiva tale condizione solo a Dio, vita senza fine (cui neque futuri quicquam absit nec preteriti fluxerit), nulla del futuro può essere assente, nulla del passato potrà essere svanito. Ed è la memoria l’indice primo dell’esistere. Quel pesante sacco che ci portiamo dietro e che ci parla continuamente della nostra storia. Dacché contiene proprio quella vera, quella che è riuscita a sopravvivere alle aggressioni dell’ora e del giorno; che pretende di tornare alla luce per dire che esiste. E c’è il dolore, la perplessità, la via crucis del nostro andare; la coscienza della futilità di un momentaneo “paradiso artificiale”. Ma anche un perpetuo protendersi verso il sole, verso un infinito che dopo averci appena toccato ci è sfuggito. Opera di generosa armonia sonora, e di notevole rilevanza stilistica in cui la sottilità di un’idea, l’inadeguatezza del terreno di fronte al tutto, il mistero della stessa poesia, e dell’inestricabilità dell’anello mancante, lasciano spazi al dominio della luce sul nulla. Un chiarore che può offrire solo la Bellezza del canto, solo una plurivocità di nessi che dànno forza e lucore a un verbo ora smorzato, ora ampliato, ora limato, ma pur sempre motivato da un ardore allusivo, da un gioco non facile, che, tradotto in uno slancio oltre la sintassi, oltre la comune regola grammaticale, denota la tanta complessità interiore di Sandra Evangelisti:

Viene facile giocare con le parole.
Collocarle usarle
girarle ed adattarle.
Facile giocare.
Di meno vivere (Mancanza),

Quindi parlare di eros e thanatos non è fuori luogo; parlare di malum vitae non è azzardato;  … Al tocco dell’amore ognuno diventa poeta, afferma Platone. E Sandra lo conferma come il sentimento dei sentimenti in tutta la sua imperfezione; quello che gioca a tu per tu con la vita ed il mondo:

L’amore è imperfetto,
(…)
Non ama definizioni e non si fa definire.
(…)
Non ha legami con la giustizia e la morale,
(…)
Contribuisce in modo insopportabile
alla tristezza del mondo a venire.
Dico questo perché l’ho incontrato
sul ciglio della strada
vestito da efebo con occhi verdi (L’amore è imperfetto).

Anche se la poetessa sente forte la liricità delle emozioni. La forza attrattiva dei loro legami e la verità delle loro contaminazioni. Anche se amare nel sogno e nella poesia non è semplice:

Amare nel sogno e nella poesia
non è semplice.
Non fa per una donna.
(…)
Lei desidera appassionatamente
ciò che appare
e non è.
Sarà mai donna?
Lo è stata solo in sogno?
Dicono che basta dire sì.
E’ un momento di ascesa ed obbedienza
quello che genera l’eterno.
Così si dice (Così, si dice).

Ma, alfine, è la passione che domina sulla ragione. E lasciarsi andare al sentimento è uno sfogo di densa empatia lirica:

Lasciati andare al sentimento,
la neve brilla e il tempo corre su binari veloci e anonimi
sempre più nascosti e incolori.
Incomprensibili all’anima.
(…)
Potrò  gridare il non senso dell’anima perduta,
tuffata in ciò che non le appartiene
perché l’amore è tutto
in un altro
in cui è bello perdersi
e annegare.

Lasciati andare
al moto perpetuo
degli astri,
all’incessante divenire
degli stati d’animo
inspiegabili
alla vita così ingiusta
e imperfetta.
E accogli la sua straordinaria
rinascente musica (Lasciati andare).

Un vero tuffo nel tutto, nella pluralità incontrollata e senza regole. Nell’irrazionale gioco degli stati d’animo, per svincolarsi dalle aporie e dalle sottrazioni della quotidianità. Un naufragio nella grandezza smisurata di un mare musicale.
Perché la ragione frena, limita, è umanamente disumana, quanto è umanamente naturale il disordine emotivo, libero, schietto e lasciato alla libertà dello spirito. E perché il sentimento è antirazionale, va oltre, esonda, e si protende verso orizzonti che varcano i confini della terrenità:

Lo stordimento sarà totale
e benefico    
alla ragione e al cuore (Lasciati andare).

Ed è proprio lo slancio del cuore a riportare Sandra ad antiche primavere, alle veglie d’inverno:

Era il tempo
delle veglie d’inverno.
Odore di fumo
e fuoco che brucia (La casa),

a un fuoco che scaldava i giorni e le speranze.
Ed ora che torna  l’estate:

Trova vuoto il cuore
spoglia la casa,
e fredda
come fosse d’inverno (ibidem).

Andate e ritorni, rievocazioni e melanconie che ci parlano di amore, di memorie, di vuoto che opprime, di baci dimenticati, di limiti, di rosari sgranati, di odore di fieno, di tempi di bocci, o di  vite segrete di donna, madre ed amante ne La dimora del tempo.

Nazario Pardini
















1 commento:

  1. una presentazione eccellente che incuriosisce in modo incontenibile e sprigiona la voglia di leggere le poesie racchiuse in quest'opera.
    Francesco

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