giovedì 1 gennaio 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "MI MANCHI" DI ANTONIA IZZI RUFO




Antonia Izzi Rufo: Mi manchi 
Il mio libro. Roma. 2011. Pg. 86

Una via crucis le cui tappe segnano la storia della Nostra


Un libro strettamente autobiografico, che, zeppo di abbrivi vicissitudinali, si nutre del dolore di una mancanza irrimediabile; della sottrazione di un lui che continua a vivere in una memoria densa di vita. Mi manchi, il titolo; distribuito in due sezioni (Poesie dell’attesa, senza speranza, e Mi manchi), nella prima si alternano composizioni ora secche, apodittiche, e ora più ampie e riflessive; mentre, nella seconda, eponima, prose poetiche di forte impatto  introspettivo in cui le cose più semplici, legate alla persona scomparsa, tornano a vivere con grande visività; un vero diario in cui si succedono pensieri, descrizioni, stati d’animo, e ambiti familiari: il letto, il volto, l’ultima notte, il sorriso, gesti, abitudini, fatti, emozioni, confessioni, spesso monologhi, di grande partecipazione  emotiva; di forte intensità umana.
Mi piace iniziare da una citazione testuale che, da subito, ci introduce in quello che è il motivo centrale di questa plaquette:

Torno a te, amico foglio,
per riversare sul tuo candore
pianto e dolore,
dolore e pianto.

Un dolore che percorre tutto lo spartito, determinandone continuità e compattezza; una via crucis le cui tappe segnano ed hanno segnato, in profondità, la storia della Nostra, fino a condurla ad uno stato di sconforto e di solitudine. Anche se la memoria interviene con voce rasserenante a riportare suoni e visioni di grande potere affettivo con i suoi ritorni da nirvana edenico, da alcova in cui la poetessa possa rifugiarsi per rivivere momenti e tempi, luoghi e fatti che tornano ad alleviare una realtà esiziale con visioni d’immaginifico impatto rigenerante. È così, in questo modo, che l’Autrice tenta di cucire un legame fra sé ed una voce “che chiama da lontano/ che vuole ascoltare…”. Ed è così che quello che gonfia nel suo petto, anche se impalpabile, diviene vivo, caldo, reale:

Solo in me ti ritrovo,
vivo, caldo,
reale nella tua immagine,
ma impalpabile.   

Ma c’è la paura della notte, della solitudine, della voce del silenzio, subdola, ambigua, ostile:

Un lume acceso
mi protegge,
là,
sul letto,
dove tu
lottasti con la morte…

E c’è tristezza ora, in tutto ciò che prima brillava di luce e di amore. Perfino la natura sembra partecipare a questa emotività, si fa viva, corposa, incidendo psicologicamente nel cristallizzare gli stati d’animo della Poetessa: il sole è triste, i raggi ne celano il pianto, triste è il canto degli uccelli, tristi le mammole e le primule, e la primavera è deformata da nuvolette melanconiche. Un pathos che poi tanto lontano non è dal potere di Thanatos:

respiri a fatica,
(…)
vuoi solo morire (Soffrire).

Lo spartito tematico continua nella sezione eponima con più possibilità di analisi introspettiva per un dire prosastico ampio e generoso; e fin dagli inizi ne rivela il focus centrale, che si fa leitmotiv dell’intimo “Diario”:

Mi dicevi spesso: “Che ne sarà di te, quando io non ci sarò più?”. Un brivido mi attraversava il petto e tremavo.
   
Lo stesso volto dell’amato stenta a farsi vivo per il dolore: “Non ricordo il tuo volto il dolore ha cancellato l’immagine davanti ai miei occhi”.

Fino ad una conclusione che sembra dare speranza e sollievo per la visione di un Oltre, di uno spiraglio di luce che sa tanto di unione e di fiducia ritrovata:

“Certo, amore, resteremo uniti, beati tra i beati, e dal nostro imponderabile Infinito manderemo influssi benefici sui poveri mortali, per alleviare i loro mali, per rendere più agevole il loro cammino verso la Meta prefissa dal Fato”.


Nazario Pardini

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