venerdì 2 gennaio 2015

F. ROMBOLI E N. PARDINI SU "D'ANNUNZIO" DI UBALDO DE ROBERTIS




Ubaldo De Robertis
Floriano Romboli









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Ho apprezzato molto la nota dannunziana che condivido pienamente, soprattutto nella sottolineatura della profondità etico-culturale del discorso artistico del poeta pescarese troppo a lungo interpretato quale retore brillantissimo, magari geniale, ma privo di autenticità e quindi di veri contenuti. Nei miei lavori dannunziani ho costantemente sostenuto il contrario sulla falsariga di un’idea differente, e osservo con piacere che anche il presente commento si motiva e si sviluppa in questa direzione. (Floriano Romboli)


Sono sempre stato un grande estimatore della poesia di D’Annunzio e soprattutto ho sempre ammirato il suo sguardo incantato verso una natura, che non trovo e mai ho trovato solamente retorico ed enfatizzato. Ma originale, vissuto, zeppo di quelle sensazioni  che anch’io ho provate e provo dinanzi ai colori ed ai calori, ai profumi, ed ai rumori che trasmette la pineta di Marina di Pisa. Pur partendo, il Poeta, da una natura acerba e primitiva dei pastori della sua Pescara e dei suoi Abruzzi, giunge ad una convinzione prettamente soggettiva del panismo: nei suoi migliori lavori e soprattutto nelle Laudi (Sera fiesolana, La pioggia nel pineto, La morte del cigno) attua una vera trasfigurazione dell’essere umano.  Come nel Meriggio in cui il poeta si fa tutt’uno colla lucidità dell’ora. O ne La pioggia nel pineto, in cui Ermione diviene parte oggettiva di un ambiente che la vuole sua. E non trovo niente di artefatto in tutto questo, ma, al contrario, qualcosa di originale; uno stato emotivo e sensoriale di sperdimento nella grandezza del creato. Tutte sensazioni ed emozioni che ho sentite di fronte ai grandi spazi naturali e che ho cercato di trasferire nei versi delle mie poesie. Per il resto condivido pienamente la esegesi di De Robertis sul Poeta. Una nota critica condotta con grande sagacia interpretativa (Nazario Pardini).   
“Non odo più la battima né provo
sogni e tristezze in questo diluirsi
del cuore nel mio mare. Son fuscello
che si annulla nell’aria mattutina
portato sull’onda dall’ala leggera
del novembre. Forse rincaserà
l’anima mia in fuga negli abissi.
Ritornerà in prigione nel suo corpo,
riprenderà i suoi occhi per mirare
l’immensità del mare,
per pensare di nuovo che la vita
è quel fuscello breve che dimena
in un’immensità che ti rapina” (N. Pardini: L’azzardo dei confini, 2012).



Gabriele D'Annunzio



Pineta di Marina di Pisa


I Camelli

Nostra spiaggia pisana,
amor di nostro sangue,
vita di sabbie e d’acque
silvana e litorana,
o ferma creatura
nella qual si compiacque
un’arte che non langue
non trema e non s’offusca,
terra lieve e robusta
che lineata pare
dalla mano sicura
del figulo onde nacque
il purissimo vaso
che vale e non corusca
né pesa, specie pura,
l’orgoglio della mensa
e della tomba etrusca,
il fiore delle forme
nel cielo senza occaso,
or qual mai novo caso
fece che dall’immensa
Asia o dall’Africa usta
sen venisse il deforme
somiero a stampar l’orme
su la tua levità
divina e, come fa
il giumento crinito
dal tranquillo occhio amico
dell’uomo, a someggiare
con la sua gobba onusta
le spoglie dell’augusta
selva tra l’Arno e il Mare?
Passano per la macchia,
vanno verso la ripa,
tra i mucchi di legname,
tra i cumuli di stipa,
i camelli gibbuti,
carichi di fascine
di ramaglia e di strame,
sì gravi e tristi e muti!
Sotto i lor piè distorti
scricchiolano le pine
aride, gli aghi morti.
Ròtea la mulacchia
nel cielo ingombro d’afa;
e a quando a quando gracchia.
Cola e odora la ragia.
S’odono su le Lame
di Fuore le cavalle
nitrire a quando a quando;
e più sottil nitrito
e più tremulo s’ode
rispondere e più fresco,
dei puledri novelli.
Passano per la macchia
gravi e tristi i camelli.
Non il lor Barbaresco
li guida ma il bifolco
toscano, con l’antica
voce che i padri suoi
usarono pel solco
ad incitare i buoi
tardi nella fatica.
Vanno i callosi cuoi.
 Giungono alla radura
per deporre i lor fasci.
Ecco, subitamente
ciascun par che s’accasci
per esalare il fiato,
per quivi infracidire.
Si piegan su i ginocchi
con un grido sommesso.
Poi sbadigliano al sole.
Appar la gialla chiostra
dei denti aspri, il palato
violaceo. S’ode
salire nelle gole
serpentine e lanose
un gorgóglio intermesso.
Treman le labbra molli
e lacrimano i bruni occhi
esanimi, gli specchi
inerti dei deserti
e dei palmeti. Vecchi
sembran della vecchiezza
del Mondo questi grandi
esuli, oppressi e affranti
da tutta la stanchezza
che addolora la carne
viva sopra la faccia
della Terra discorde.
S’alzano senza il peso.
Lunghe dal fianco spoglio
trascinano le corde
giù per la traccia. E s’ode
quel lor triste gorgóglio.
Tali forse li vide
in lor piagge natali,
e n’ebbe orrore, il buono
mercatante pisano
che fu predato e tratto
prigione dai corsali
in paese lontano.
Volle la mala sorte
ch’egli incappasse in una
fusta di Barbareschi,
che armava ventidue
remi per banda, forte
e veloce a saetta.
E per le mani ladre
perse le robe sue,
la cocca a vele quadre
e la mercatanzia.
E fu messo in ritorte.
E schiavo in Barberia
gran tempo si rimase.
E macinava il grano
a braccia, tratto tratto
udendo il grido vano
del camello percosso,
triste sino alla morte.
Poi tornò, per riscatto,
a Pisa, alle sue case.
E fecesi un palagio
novo a specchio dell’Arno.
Memore del malvagio
servire, ALLA GIORNATA
scrisse nell’architrave.
E l’Arno era soave.



La Tenzone

O Marina di Pisa, quando folgora
il solleone!
Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d’Arno a tenzone.

Come l’Estate porta l’oro in bocca,
l’Arno porta il silenzio alla sua foce.
Tutto il mattino per la dolce landa
quinci è un cantare e quindi altro cantare;
tace l’acqua tra l’una e l’altra voce.
E l’Estate or si china da una banda
or dall’altra si piega ad ascoltare.
È lento il fiume, il naviglio è veloce.
La riva è pura come una ghirlanda.
Tu ridi tuttavia co’ raggi in bocca,
come l’Estate a me, come l’Estate!
Sopra di noi sono le vele bianche,
sopra di noi le vele immacolate.
Il vente che le tocca
tocca anche le tue pàlpebre un po’ stanche,
tocca anche le tue vene delicate;
e un divino sopor ti persuade,
fresco ne’ cigli tuoi come rugiade
in erbe all’albeggiare.
S’inazzurra il tuo sangue come il mare.
L’anima tua di pace s’inghirlanda.
L’Arno porta il silenzio alla sua foce
come l’Estate porta l’oro in bocca.

Stormi d’augelli varcano la foce,
poi tutte l’ali bagnano nel mare!
Ogni passato mal nell’oblìo cade.
S’estingue ogni desìo vano e feroce.
Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;
quello che mi toccò, più non mi tocca.
È paga nel mio cuore ogni dimanda,
come l’acqua tra l’una e l’altra voce.
Così discendo al mare;
così veleggio. E per la dolce landa
quinci è un cantare e quindi altro cantare.

Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d’Arno a tenzone.


Gabriele D’Annunzio

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