venerdì 13 febbraio 2015

UGO PISCOPO "IL MIO CHARLIE, PERO'"


Charlie, però (X IRES)

Nei giorni scorsi, in un clima fibrillante di indignazione e di dolore per i tragici fatti di Parigi, di fronte alle vittime della redazione di “Charlie hebdo” e delle altre vittime del terrorismo, ho subito risposto “je suis Charlie”, ai tanti appelli che mi sono giunti da molteplici parti. Ho anche fatto partire anch’io di mia iniziativa messaggi analoghi. Ho avviato, tra l’altro, un dibattito con un amico artista, che pensava e pensa diversamente. Sono stato, sono, sarò Charlie per sempre. Non si può, infatti, non essere contro il terrorismo e la barbarie. Per la libertà tout court, senza se e senza ma.
Però, occorre aggiungere qualche codicillo. Certo, per la libertà bisogna essere disposti perfino alla morte. Non si può, tuttavia, non considerare che questo discorso che, in un ambito di civiltà come la nostra costituita sulla cifra del liberalismo, non ammette repliche nella sua solarità e perentorietà, non può non  tener conto che innanzitutto esistono molti altri discorsi, che le vicende storiche e le culture locali legittimano pienamente. Ogni discorso, compreso il nostro, che è frutto di sofferenze plurisecolari, di contraddizioni tragiche e che ha a punti fondamentali di riferimento il Vangelo e il 1789, si deve riconoscere discorso. E il discorso, in quanto tale,  si deve nel concreto validare in rapporto agli altri discorsi, che, se sono altri, non possono essere in tutto componibili col discorso, a cui ci stiamo riferendo e che ci sta a cuore.  Anche questi altri discorsi ambiscono ad essere riconosciuti e rispettati. E’ come la norma, che, per essere norma, deve rientrare nell’ambito delle norme. Altrimenti ne resta fuori. Come la parola che non è mai un primum in assoluto, ma, per acquistare cittadinanza, deve incontrarsi/scontrarsi con tutte le altre parole e prendere fra loro residenza e fare comunanza, agire in un’interrelazionalità fondata sulla societas. Niente nasce dal nulla, tutto diviene, dice una legge scientifica. Nel vivere umano, il pre-dato, il tradendum, che fonda la tradizione (che fisiologicamente è anche tradimento), è il consorzio tra gli uomini. E, se in questo consorzio una interpretazione non concorda con l’altra, bisogna darsi “o pizzico ‘ncopp’a panza”, come si dice a Napoli, e andare avanti in condominio con gli altri, che hanno il diritto di avere convinzioni diverse. Proprio come ho visto fare in Germania pochi anni fa, quando non fu mandata in scena a Monaco di Baviera un’opera di Mozart, che doveva inaugurare un’intera stagione teatrale, perché in quel lavoro mozartiano potevano essere ravvisati aspetti offensivi nei confronti dei musulmani, la cui presenza in Baviera e negli altri Länder tedeschi non è irrilevante. Senza dire, infine, che forse, soprattutto in un tempo di globalizzazione travolgente, entro il quale sono sincronici arcaicità e modernità, nomadismo e stanzialità, qualche pensierino sul versante teorico e laico andrebbe fatto di aggiustamento dell’idea di libertà, che non può non deve funzionare in maniera coattiva, totalitaria, assoluta. L’occasione è buona perché ci si rimbocchi le maniche e si aiuti la libertà ad essere libera dalla maglia stretta delle assolutizzazioni.


Ugo Piscopo


Cari Amici,
che avete letto il mio “Charlie, però”, e avete risposto, inviandomi osservazioni molto pertinenti e stringenti, mi sono sentito in obbligo di integrare e chiarire i miei assunti e ho scritto questo tracciato introduttivo, che vi mando.
In sintesi, il mio concetto di libertà è che questa gentile e fascinosa fanciulla, che è la libertà, che reca sulle sue gambe freschissime e piene di vitalità un bouquet di intriganti simboli, come è codificato nel suo nome di antichissime origini indoeuropee diramatesi nel greco, nel  latino, nel celtico, nell’ambito germanico,  non può abusare del suo fascino, non può concedersi il lusso di fare la donzelletta vezzosa fra giovinastri, goliardi, frequentatori di  angiporti taverne e dintorni, né può sprecare tempo o crescere  in mezzo a fantasticherie, né, infine, può abbandonarsi a pulsioni di libertarismo. Ecco, la libertà non può essere libertaria.
A monte di questa posizione, che mi sono costruita nel tempo, frequentando letteratura, arte, filosofia, storia e altre scienze umane (etologia compresa), si colloca una lezione di civiltà costituita sulla cifra fondamentale della responsabilità e della consapevolezza della complessità della vita. La frontiera, con cui, secondo me, bisogna confrontarsi  è quella della interrelazionalità, che non inventiamo noi, ma che inventa e agisce noi, e della effettualità (nel senso dato da Machiavelli al termine) o, meglio, del factum che è il nostro umano verum, come insegna il nostro G.B. Vico. Solo su questo terreno, il discorso, qualunque discorso si fa umano e insieme sostenibile.
Questa convinzione e questa scommessa, le ho fatte mie non solo sul piano teorico e conoscitivo, ma anche su quello della vita quotidiana e della relazionalità concreta con gli altri.
Faccio subito un esempio: la scuola. Che mi ha preso tanto, che una volta mia moglie, infastidita, mi invitò a prendermi la branda e andarmene nella “mia” scuola, tanto a casa stavo solo per dormire e mangiare in fretta un boccone.
Bene, a scuola ho lavorato molto, ma ho anche fatto lavorare gli altri e di ciò non mi pento. In ultimo, però, ho concluso, stringendo un pugno di mosche fra le mani, come si dice al mio paese. Perché ho dovuto registrare che di scuola si può /piace a tutti parlare, parlare, parlare, si può anche fare, la scuola, e si fa a chiacchiere e per errori, ma non mai sul fondamento della necessità (nel senso indicato da Spinoza, da Hegel, da Marx). E uno degli ostacoli maggiori è costituito da un concetto malinteso di libertà.
A scuola è il trionfo della libertà, intesa come fantasticheria, arbitrio personale, slogan che suonano talora incantevolmente, che vengono perfino sparati a raffiche micidiali. In prima linea, sono i docenti, che per nient’altro sono pronti a scendere in guerra quanto in difesa della propria autonomia. Non si può non essere d’accordo con la petizione di principio, purché l’autonomia non significhi esercizio di soggettivismo e di narcisismo. L’autonomia può e deve essere difesa e posta in essere concretamente, ma nella valorizzazione al meglio delle proprie risorse, per dare risposta agli impegni presi con un contratto sociale, nelle cui clausole i punti fondamentali sono costituiti dall’istruire e formare, non a libero piacimento di chi insegna, ma per collocare nel mondo un soggetto che  è in via di appropriazione dei modi di imparare e di relazionarsi con sé, con l’ambiente, con gli altri, col passato e col futuro, dentro e fuori delle pareti scolastiche, che nel confronto con gli altri deve scoprire  e possibilmente potenziare nel positivo  le proprie inclinazioni, per orientarsi nelle scelte e non perdere tempo a seguito di errori talora gravi di opzione, che deve sapere usare gli strumenti  della conoscenza, sia per arricchirsi, sia perfino per dimenticare quanto non gli serve. Tali obiettivi non possono essere affidati alle estrosità e ai facili riduttivismi. Vanno pensati, programmati, verificati in itinere, su tracciati oggettivi, che siano di riferimento anche agli altri colleghi impegnati con analoghe sfide per raggiungere i medesimi fini. Ma questo, se  è facile a pensarsi e a dirsi, è pressoché impossibile a calarsi nel concreto, perché i docenti sono gelosissimi custodi della propria autonomia e della gestione della propria genialità. Non sanno, non vogliono sapere che il lavoro efficace formativamente non può essere svolto se non in équipe, dal momento che i singoli alunni, le classi, l’istituto sono nelle mani non di uno solo, l’illuminato, ma nelle mani  di tutti gli addetti ai lavori messi insieme. Altrimenti,  gli alunni e le classi, al termine del processo di lavorazione attraverso cui passano, si fanno l’idea che esistono tante educazioni, ovvero diseducazioni , quanti sono i soggetti educanti/diseducanti, con i loro umori, con le loro coazioni a ripetere, con le loro fobie, con le loro rimozioni che ritornano sotto forma di isterie e nevrosi  varie, con i loro eroici furori, nel migliore dei casi. A rispecchiamento di tali effetti, apprendono che i processi formativi sono, se non una maledizione del cielo, un intrattenimento noiosissimo, che non riguarda per nulla la loro vita intima. E’ il riscontro che la scuola, che è istituita e mantenuta nell’interesse sociale per la formazione dei soggetti  in apprendimento, funziona nei fatti come un insieme di teatrini e di palestre messi a disposizione dei cosiddetti  docenti.
Da  preside ogni tanto mi compiacevo di fare lo stordito, a mimesi dello stato di eteroclicità della situazione complessiva. Certe volte, ai professori che mi dicevano “Preside, nel nostro Istituto sta succedendo questo e quest’altro”, io chiedevo “Nel nostro Istituto, ma di quale istituto parlate?”. In genere, si guardavano disorientati e i più non fiatavano, come se si trovassero di fronte a uno che avesse preso un colpo di sole. Chi aveva maggiore familiarità e ingenuità, cercava di svegliarmi dal torpore e dal disorientamento: “Ma Preside, il nostro Istituto è questo” e facevano il nome del Liceo. Allora, io incalzavo: “Il nostro Liceo, oh quanto sono distratto! Ma certo, però di quale liceo parliamo, di quello della sezione A? di quello della sezione B? di quello della centrale? di quello della succursale? di quello del Professore di Filosofia, Giovanni da Lentini? di quello del Professore di matematica, Nicola Fermi?”. Qualcuno abbassava la testa a riflettere in silenzio, qualcuno mi gratificava col riconoscimento che avevo ragione.
Sì, avevo ragione, che bella soddisfazione!, ma fra le rovine, in mezzo alle distorsioni avvenute e che stavano ulteriormente avvenendo, in molti casi irreparabilmente, ai danni di vittime incolpevoli, che a scuola venivano ad apprendere l’arte d’essere compiacenti, per sopravvivere possibilmente in maniera allegra,di  prendere in giro gli altri, comprese le proprie famiglie, perfino di disistimarsi e degradarsi.
E tutto ciò, in nome della trionfante libertà. 
Ma se i docenti erano e sono le truppe di prima linea di questa battaglia, trovavano/trovano oggettive omologie in tutti gli altri operatori scolastici, dal personale ausiliario e tecnico ai dirigenti. Tutte queste altre figure, per un verso o per l’altro, con uno stile o con l’altro, vantano crediti insolubili da parte della collettività, come martiri di situazioni ingiuste, scompensate, assurde, intanto come soggetti preziosi ai fini del funzionamento generale, per il quale si sono prodigati e continuano a prodigarsi, con sacrifici immensi sostenuti ai danni della propria libertà e perfino, in alcuni casi, della propria dignità. A risarcimento parziale, chiedono almeno gratitudine, per non aver potuto/ non potere soddisfare il bisogno insopprimibile dell’esercizio della libertà personale. Vorrebbero dei monumenti più o meno come caduti in guerra o quasi.
Non parliamo, poi, delle feroci, non sempre sottili, guerre che si fanno tra eguali in basso e tra dirigenti ai vertici, quali i responsabili dei servizi di segreteria e i capi d’istituto, come si diceva un tempo. Stanno tutti con le scimitarre affilate per fare fuori il nemico, che vuole sottomettere e svilire l’avversario. Da ispettore, tra le questioni più rognose e difficili da risolvere pacificamente, ho sperimentato proprio questo genere di vertenze “lui ha detto, io ho detto”, “lui ha cercato e io naturalmente ho cercato”. Il colpevole, naturalmente, è sempre l’altro. Il motivo scatenante è sempre la difesa della propria libertà e della propria dignità, a cui ognuno vorrebbe che fosse eretto dalla comunità, se non un tempio, almeno un tempietto, qualcosa che puzza già solo da lontano di postumità.
Se si dovesse in estrema sintesi definire questo paesaggio, bisognerebbe, su suggerimento di Francisco Goya, intitolarlo “Los Desastres”. Ma il guaio è che non si tratta di un paesaggio da ammirare o da compiangere, perché in sostanza vi si svolge quotidianamente un insieme di psicodrammi individuali e di gruppo reali, si sacrificano tempo ed energie a una mandata in scena del soggettivismo personalistico, sotto tutela del sacro principio della libertà.
Entro un contesto del genere, l’unica possibilità di essere liberi eticamente legittimati (in senso spinoziano) è quella di non farsi illusioni, di non aggiungere alienazione ad alienazione, di prendere atto dell’esistente e cercare di calcolare e valorizzare gli interstizi fra contraddizione e contraddizione, gettarvi dentro dei semi, attendere che possano germinare e crescere, fare appello alle forze sane e responsabili, per introdurre una variabile che cambi il profilo dell’equazione complessiva. Tenere presente l’affermazione giustissima di Hegel, secondo cui la libertà è la consapevolezza della necessità. Nella scuola, in realtà, a tutti i livelli ci sono, anche se minoritarie, straordinarie risorse di intelligenza e di passione, il guaio però è che esse vengono marginalizzate e, in taluni casi, penalizzate, quasi che sia un colpa essere preparati, coerenti, innamorati davvero del proprio lavoro e della propria funzione. Il sistema complessivo, purtroppo, funziona come una macchina schiacciasassi, perché tutti siano eguali nella medietà e nella mediocrità, utilissime a fare risparmiare quantità e qualità di impegno e di studio. Gli operatori della scuola, quando si trovano insieme, si avvalgono anch’essi del ritrovarsi insieme, come in genere tutti gli altri lavoratori, per tenere una linea di condotta quanto più economica possibile, ovviamente in basso.
Per uno come me, che pensava da docente che i problemi scolastici e formativi si dovessero affrontare frontalmente, che da preside nei licei ha dovuto  constatare sulla propria pelle che l’equazione da risolvere è molto complessa, se vista dall’interno dell’intera unità scolastica, costituita sulle discontinuità e diversità, sulle competizioni e sulle conflittualità, oltre che sugli scambi interpersonali e interfamiliari più o meno vischiosi, e che infine da ispettore, prima a livello regionale, poi a livello nazionale, ha scoperto che la scuola è adoperata strumentalmente per ragioni del  tutto allotrie alla sua natura come utile congegno a far allentare le tensioni del mercato del lavoro e ad assicurare la stabilità dell’esistente dando l’illusione che tutto cambi, perché nulla cambi realmente, tutti i documenti, le proposte e gli studi fatti sui processi formativi, osservati squisitamente dal punto di vista formativo, pedagogico, metodologico, didattico, disciplinare, fanno non so se più piangere o più ridere. Li guardo come dei divertissement mentali, come esercizi di lettura del libro dei sogni. Nient’altro. Perché la scuola non è la stessa cosa di un bel panettone o di una deliziosa torta: questi si fanno con tanto di farina, di zucchero e altri additivi, entro  tanto tempo, con tale specifico trattamento prima, durante e dopo la cottura. La scuola, di contro, è vicenda, in cui sono coinvolti gli uomini, cioè degli esseri complicati assai e imprevedibili, meravigliosi e insieme pericolosi, in tutto il loro impasto, agenti entro reticoli di relazionalità complesse. Le quali relazionalità dovrebbero e potrebbero essere ottimizzate e razionalizzate, se il discorso generale si fondasse su altre premesse, quelle delle abilità tecniche, dell’utilizzo intelligente dei patrimoni di saperi, dell’umiltà di funzione, innanzitutto dell’amore per gli altri, soprattutto per i soggetti in via di apprendimento e di  formazione, insieme con i quali bisogna imbarcarsi a rischio individuale e di gruppo per una navigazione, che può essere calcolata in partenza, ma che arriva ogni volta su altre sponde, che possono essere e sono un bel po’ diverse da quelle pensate in partenza.
Personalmente, al termine della mia esperienza, che mi ha portato ad essere insignito del titolo di “benemerito della scuola, della cultura e dell’arte”, con un decreto firmato dal Presidente della Repubblica pro tempore, mi sono chiesto, forse da ingrato, come mai la scuola non sia stata presa in esame da Foucault e non sia stata posta accanto al carcere e alla clinica, come istituto di coazioni, di ripetitività, di integrazione nell’ordine costituito dalla società dominante.
Ma della scuola, satis superque. Diamo adesso uno sguardo attorno alle situazioni offerte dalla realtà nazionale e da quella planetaria riguardo al dialogo (frastornante e ambiguo) con il concetto di libertà.
Il nostro Paese è, sotto gli occhi (increduli?) di tutti in Europa e nel mondo, quello dove è scoppiata una festa durata quasi un ventennio (che nei tempi moderni ha un senso di molto maggiore pregnanza semantica rispetto al passato) della Libertà, anzi delle Libertà. Non per nulla il movimento-partito della Casa delle Libertà (nome molto promettente sul piano fabulatorio) è stato a lungo approvato e seguito dalla maggioranza degli italiani, che, come è noto, sono molto sensibili agli spettacoli e alle promesse di regni di Bengodi, dove poter trascorrere l’esistenza, in affluenza di ogni bene materiale, senza la necessità di logorarsi le meningi a pensare come fare per ottenere una meritata ricompensa. In questa festa ventennale, che eccitava e rendeva orgogliosa la maggioranza della popolazione, si legittimavano tutti i generi di Libertà, senza che questa massa di individui fosse attraversata da un solo, piccolo dubbio circa lo sdoganamento di tutte le libertà. Eppure, prudenza e buon senso avrebbero voluto/vorrebbero che si esercitasse un po’ di “discrezione” (nel modo inteso da Guicciardini) e che si tenesse presente che, per fare un buon raccolto di grano, bisogna a monte distinguere e difendere questo prezioso cereale dalla commistione invadente di altri selvatici cereali, perché non tutti i cereali si equivalgono. E ciò vale nella materialità dei fatti, come sul piano morale e intellettuale. Dice, ad esempio, Kierkegaard dell’interiorità, che è da lui assunta a frontiera per eccellenza di tutto il suo speculare indirizzato a seguire un itinerario sempre più dentro all’interiorità, che è prioritario vigilare a non concedersi  a “qualunque interiorità” (Postilla conclusiva non scientifica a L’intermezzo filosofico).
Nel mondo contemporaneo, poi, la libertà è in pericolo come non mai. Perché, come è stato avvertito lucidamente da Horkheimer e dagli altri Francofortesi e come è venuto precisandosi in una vasta letteratura critica, che comprende molte discipline, le manipolazioni dell’idea di libertà possono strumentalmente indurre in maniera soft e convinta pressoché tutti, compresi i possibili antagonisti,  a integrarsi unidimensionalmente, confortevolmente in processi di conformismo di massa. A esercitare, cioè, la libertà di scegliersi liberamente la propria schiavitù, come esplicita Marcuse. Stiamo, così, tutti su un clinamen, che induce a slittare là dove ci portano logiche strumentali. Perfino ad accettare come un successo quella che è magari una sconfitta. Osserva a tale prop+osito Slavoj Ztziek (“Corriere della Sera”, 3 febb. 2015): “L’illibertà mascherata del suo opposto si manifesta in una miriade di forme: quando siamo privati dell’assistenza sanitaria, ci dicono che ci offrono la libertà di scelta (del fornitore di assistenza sanitaria); quando non possiamo più contare su un impiego a lungo termine e siamo costretti a cercare un nuovo lavoro precario ogni due anni, ci dicono che ci offrono l’opportunità di reinventarci e scoprire nuove e inaspettate risorse creative, latenti nella nostra personalità; quando dobbiamo pagare l’istruzione dei nostri figli ci dicono che «investiamo su di noi», come un capitalista che deve scegliere liberamente come investire le risorse […]. Bombardati costantemente da «libere scelte» imposte, costretti a prendere decisioni per cui generalmente non siamo neanche abbastanza qualificati (o informati), viviamo la nostra libertà  per quello che è realmente: un peso che ci sottrae la vera scelta di cambiare”.

Ed ecco che siamo di fronte a un’anfibologia, che si disocculta non per la prima volta nella storia e negli ambiti speculativi. Ma l’anfibologia della libertà, oggi più di ieri, si interfaccia in mille altre declinazioni. Ad esempio, non solo nelle banalizzazioni e nelle strumentalizzazioni, ma nelle generalizzazioni e nelle tassative normativizzazioni stesse del concetto, in cui, occultando le contraddizioni esistenti e le difficoltà da affrontare per una soluzione dei problemi, si danno volontaristicamente (per proiezioni inconsce) come avvenuti e accettati processi, che bisogna ancora attivare o che si sono appena avviati. Sono escluse da questo ambito le normativizzazioni istituzionali, come nella Carta Costituzionale italiana o come  nella Carta dei diritti, che invece aprono autostrade al progredire delle interpretazioni, a sostenere battaglie per riconoscimenti e provvedimenti nel pubblico e nel privato. Ci si riferisce soltanto a profezie, a vendite di indulgenze, a promesse e utilizzazioni politiche, dove la politica è intesa e tradotta concretamente in una quotidiana disinformazione delle situazioni effettive. L’anfibologia, ancora, si interfaccia nei transfert e nelle involontarie identificazioni del soggetto nell’oggetto, quando democrazia e libertà diventano sinonimi di società e culture evolute nettamente distinte dalle culture e dalle società in via di sviluppo o connotate tuttora dall’arcaicità. In questi casi, l’elogio della democrazia e della libertà è, oggettivamente, l’elogio di quelle aree geopolitiche, che vantano il credito di avere elaborato e fatto affermare questi valori nel mondo. In pratica, si tratta dell’elogio di sé stessi, del proprio etnocentrismo, che si pone in essere, destituito di ogni rispetto per gli “altri”, privo di ogni consapevolezza come quella che è centrale nelle ricerche antropologiche ed etologiche della modernità, arbitrario e sconfinato, che ha smarrito ogni rapporto con gli avvertimenti di prudenza disseminati nel corso della storia, come quelli contenuti nel trattatello plutarchiano di tanti secoli fa, Come è permesso lodare sé stessi. L’anfibologia si allarga a slavina, inoltre, nelle concezioni e nelle attuazioni di dominio e di controllo, favorite oggettivamente da dinamiche non assoggettate al confronto con quello che i greci chiamavano il “logos”, lasciate a sé stesse, anzi legittimate come naturali, quasi che ciò che si promette e si proclama come valore abbia il diritto sempre e comunque di sperimentarsi e di mettersi in atto. Senza sapere che le idee e le promesse di bene possono essere portatrici involontariamente di aggressività, intolleranza, totalitarismo, come osservava nel secondo Ottocento Ralph Waldo Emerson riguardo ai comportamenti ideologici. Egli affermava che “non vi è nessuna mente, nessun pensiero che non tenda rapidamente a convertirsi in potenza e ad organizzare una misurata strumentalità di mezzi”.
Queste e altre simili distorsioni, che magmaticamente dilagano nel mondo di oggi, richiedono a tutti di riflettere un attimo prima di usare parole e concetti, e, riguardo alla “libertà”, di considerare i rischi di usi impropri e di prevaricazioni. Occorre fare innalzare i livelli dell’autocoscienza e della conoscenza dell’interrelazionalità che ci colloca tutti nel mondo e del fatto che i valori non si calano nel mondo una volta per sempre, ma bisogna difenderli ogni attimo da imbalsamazioni e celebrazioni, in quanto devono camminare sulle gambe della gente, che è in continua oscillazione, in equilibrio continuamente instabile di avvicinamento e di allontanamento dal reale.
Siamo, quindi, solo ai prolegomeni di un discorso da ridefinire e collaudare. Queste sono solo le premesse liminari. Che, poi, in sostanza, già si sono affacciate, ed anche energicamente, alla speculazione del pensiero. Come nel caso di questa glossa monitoria e pregnante di eticità di Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Laterza 1907): “Di nessun’idea si sa così universalmente, che è indeterminata, polisensa, e adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori equivoci, come dell’idea della libertà; e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza. Poiché lo spirito libero è lo spirito reale, i malintesi intorno ad esso hanno conseguenze pratiche tanto più mostruose, in quanto, allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello spirito, e cioè la sua realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora i Greci e i Romani, Platone ed Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.), o mercé la forza del carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del Cristianesimo; pel quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo è destinato alla somma libertà. Se nella religione come tale l’uomo sa la relazione verso lo spirito assoluto come verso la sua essenza,egli ha presente inoltre lo spirito divino anche come quello che entra nella sfera dell’esistenza mondana, come la sostanza dello stato, della famiglia, ecc. Queste relazioni vengono, mediante quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed egualmente, mediante quello spirito, formate e costituite in modo adeguato ad esso; ed egualmente, mediante siffatta esistenza, il senso della moralità diventa insito all’individuo; ed egli allora, in quanto sfera dell’esistenza particolare, del sentire e del volere presente, è realmente libero”.


Napoli, febbraio 2015                                                                            
Ugo Piscopo

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