giovedì 12 marzo 2015

SANDRO ANGELUCCI SU: "IL POETATTORE" DI ANGELO MANCINI




IN RIFERIMENTO A:

"IL POETATTORE" DI ANGELO MANCINI (MANNI EDITORE)
Presentato il 31 gennaio 2015 
nel 
Municipio di Monterotondo

PRESENTAZIONE DE
IL POETATTORE
DI ANGELO MANCINI


a cura di Sandro Angelucci 



       È figlio di un rapporto (oserei dire incestuoso), Il Poetattore, per il forte legame di sangue tra parola scritta e parola recitata.
       Nessuna accezione moralistica né, tanto meno, dispregiativa; al contrario: compiacimento, soddisfazione per la nascita di una creatura poetica frutto di un amore sincero, pulito, proprio perché fuori dagli schemi; libero di gridare a tutti la sua sete di verità, il bisogno di una pazzia riequilibrante, sana, rieducativa.
       S’alza il sipario ed inizia il dialogo: già, perché quantunque pubblico e teatro siano ipotetici, c’è una platea di spettatori invisibili pronta a non perdere nemmeno una battuta della recita. Non ci sono posti vuoti: ogni poltrona è occupata da tanti Angelo Mancini, nei quali, chiunque abbia davvero voglia di vivere, può riconoscersi.
       La prima scena si apre con l’immagine, sullo sfondo, del mare; potrebbe essere interpretato come un simbolo rasserenante, invece non è così: la sua bellezza, la sua immensità, il suo mistero – per quanto possenti – non riescono a cancellare le orme che il protagonista lascia sulla sabbia di una spiaggia “piena di immondizie / e di pesci putrefatti”.
       Comincia la crisi, generata dallo scontro tra un’interiorità offesa e tradita ed il mondo, inquinato, anch’esso violentato e insidiato dagli squilibri umani: due realtà – meglio la stessa – colpite dal medesimo proiettile. E la ferita che non rimargina, zampillante e dolorosa fino all’ultimo quadro, mentre, sempre più lontano, “un bambino / rincorre e strapazza un pallone / urlando gioioso”; sempre più lontana, sgorga l’acqua fresca della fontanella di nonno Angelino per fermare l’avanzata del deserto e “fantasmi stranieri / . . . . / puliscono i vetri / (e) offuscano il cuore.”.
       Il poeta, l’attore, capisce che “la (sua) missione è impossibile disperata”: ha paura, ma misteriosi silenzi e inebrianti profumi sovrastano lo smarrimento, lo attutiscono; se non altro, rivalutano il senso-non senso di un’esplorazione che è insieme “somma e banale / religiosa e meschina / doverosa e inutile / eroica vigliacca / solare / dolorosa / gioiosa / amara” e, dunque, autentica, perché sfamata dal cibo – ora dolce, ora salato – con cui si nutre anche l’esistenza.
       Dice bene, Franco, concludendo la sua prefazione: “. . . Sta qui, a parer mio, la spiritualità, la grandezza. . . Dilaniato dalla dualità, (Mancini) si sente ‘un uomo / comune ed eterno / . . . . / Una sorta di intruglio / umano e divino’. . . Ma è in tale dualità – prosegue Campegiani – che si gioca la partita della follia e dell’equilibrio. . .”. Una partita – mi viene da aggiungere – dai continui ribaltamenti di fronte, dai frequenti cambi di risultato e, proprio per questo, emozionante, degna di essere seguita fino all’ultimo minuto.
       Cala il sipario sul Primo Atto e, preceduto dal divertissement, tutt’altro che frivolo, di un clown, “come uscito dal nulla”, inizia il Secondo.
       Con la consueta caparbietà, senza mai abbandonare l’arma dell’autoironia (“Sono un giullare / Quasi un poeta. . . / Amo cantare /
. . . . / Che vuoi cantare povero scemo! / . . . . / Senti tesoro / di fare il bardo / non è più tempo / . . . . / Cambia mestiere / . . . . / Fai il consigliere. / Fai il faccendiere. . .”), il Nostro si addentra nelle pieghe più profonde della sua sana follia.
       Tutto ciò si traduce in un ribaltamento totale degli stereotipi, in Quasi una preghiera o Una preghiera altra – si potrebbe dire, prendendo in prestito i titoli di due delle sezioni nelle quali l’Atto si divide –.
       Dalle stesse – ritengo – viene fuori il movente che fa si che lo sfogo, come un’eruzione, non possa più essere trattenuto; l’impazzire dei poeti di fronte al mistero “delle colline nebbiose / dei silenzi stellati del vuoto”, il loro smarrimento al cospetto di un fuoco alimentato da qualcosa che non conoscono e, tuttavia, sentono bruciare dentro.
       “Ma il poeta si sa / è un bambino curioso / che immerge le mani / nell’acqua bollente gelata. . .” ed esattamente in questo consiste il suo più grande piacere: una gioia dolorosa, difficile da spiegare.
       E Mancini chiede aiuto al “giorno nascente”, all’alba, alla “ragazza divina”; le chiede cosa deve fare per liberarsi dalle inquietudini: “chi sono dunque? / e perché poeta! / rispondimi ti prego / (perché poeta?)”, la implora, ma la risposta non arriverà mai: è già stata data, una volta e per sempre, tutte le volte e nessuna.
       Resta soltanto un’altissima Piramide (simbolo indecifrabile di una civiltà, forse, mai esistita) che assiste “impassibile” alle assurdità di una Babele ormai irreversibile, che la pietà di una nebbia, opportuna e provvidenziale, riesce, a malapena, a confondere.
       Ciò nonostante, l’attore deve e vuole resistere, “anche se il sole, / ormai, / è dietro le spalle / e la penna, / che scorre sul bianco quaderno, / è già spuntata. . . da un pezzo. . .”.
       Per quale motivo? Perché non può fare altrimenti.
       Per chi? Per i “ragazzi di un coro stonato / (di un gregge ammaestrato)”.
       Con quali aspettative? Che non cali troppo in fretta il sipario sullo spettacolo della vita che adesso sta imparando ad apprezzare.
       Ma non c’è più tempo: il protagonista esce di scena e “confuso e commosso”, in solitudine si siede per non perdere neppure una parola del “flebile rumore degli astri”, del “potente respiro delle montagne”.

Sandro Angelucci


3 commenti:

  1. Avevo ascoltato la relazione di Sandro, il 31 gennaio a Monterotondo, nella sala consiliare di Palazzo Orsini, e ne ero rimasto colpito. Adesso,tuttavia, che la leggo e la medito nel silenzio del mio studio, l'emozione moltiplica a dismisura. Conosco Angelo Mancini da una vita e posso garantire che questa esegesi entra con vigore e con grazia nel sangue e nell'anima della sua poesia, nel suo spirito che si sente insultato e tradito. Vi entra con l'acume del critico, ma soprattutto con la generosità di un cuore che soltanto un poeta può avere.
    Franco Campegiani

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    1. Errata corrige: "l'emozione si moltiplica a dismisura".
      Franco Campegiani

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  2. Mi colpisce molto questa recensione di Sandro Angelucci a cui porgo i miei complimenti. Comprendo il poetattore molto bene e anche troppo. Quanta crudeltà come sincerità, in quel dualismo necessario al vivere le vere contraddizioni; nell'ossimoro della realtà fatta di mille facce sfaccettate di impotenze e aneliti, misteri e aperture. Congratulazioni a Angelo Mancini le cui liriche cercherò di leggere. Patrizia Stefanelli

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