lunedì 1 febbraio 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "LA STORTURA DELLA RAGIONE" DI PIETRO STEFANONI

Questo poemetto, nato come avvertito nel titolo da una visita alla Valle del Belice e alle rovine della vecchia Gibellina, vuole essere una breve meditazione poetica a partire dai luoghi in cui all’evento luttuoso della catastrofe naturale si accompagna la responsabilità di un malinteso rapporto col territorio basato, oltre che su una sua cattiva conoscenza, su uno sfruttamento disordinato ed equivoco delle risorse. Tutto ciò, celato nelle insufficienze di un sistema politico incompetente o deliberatamente mancante, manifesta i segni di una mentalità diffusa in cui a vari livelli ognuno di noi rischia al tempo stesso di esserne vittima e causa…”
Questo il frammento di uno scritto inserito come postfazione dall’Autore all’opera La stortura della ragione, e-book, Clepsydra Edizioni, 2011. Un testo significativo che fa da prodromico invito ad una silloge carica di risentimento e di dolore per come vanno le cose in questo paese: carenza di educazione civica;  incuria, mancanza di rispetto per tutto ciò che ci circonda; verso una natura bistrattata e spregiata per interessi economici, egoismi e soprattutto per una cattiva conoscenza del territorio. Una silloge che, sviluppata su un percorso di XIV pièces,. riesce con tutto il suo apporto semantico-allusivo e verbale a concretizzare gli intenti etico-emotivi dell’autore; a evidenziare un mondo che sta smarrendo quelli che sono i cardini fondanti della società e della politica.
       Lo stile, plurale e di efficace sonorità per metonimie e anacoluti, per figure retoriche di saggio impiego costruttivo, fa da corpo a tematiche di ontologica creatività per interrogativi su: “un malinteso rapporto col territorio basato, oltre che su una sua cattiva conoscenza, su uno sfruttamento disordinato ed equivoco delle risorse”. Se al tutto si aggiunge l’incompetenza di politici inetti o vòlti a interessi personali il gioco è fatto:
Quant’anima s’è fatta improvvisa, terra senza risolversi. Basse, dalle mura aperte, povere, care case sbattute sul crinale. “Coliamo, dentro le crepe scomposti, in un irraggiungibile grido..”. Sì, proprio un grido da parte del Poeta; un grido che rimbomba e fa eco per tutti coloro che caddero in precipizi, o che furono sfrattati dalle loro case per terre frananti su paesi e città, una volta tripudio di colori,di ruscelli, e di boschi. Ci si rivolge direttamente all’Italia, come personaggio vivo con cui parlare; ma è un monologo triste e appassionato; ossimoricamente visivo per una signora di luce che cancella le sue mandrie come tributo:
Improvvida Italia, signora di luce, la grazia del nome non trattiene il furore. Scandiscono i caduti un patto instabile, scelleratezza domestica ove non uso, non avvezzo il suolo alla vite. Sconfessa la valle in discorde memoria, cancella le sue mandrie come da tributo”.
       Composizioni inanellate le une alle altre in un insieme compatto ed organico; in una forma polisemica in cui la natura si fa attrice prima con un volto sfigurato  da sottrazioni e mancanze;  da irresponsabilità che riguardano tutti; ognuno di noi, manchevoli di storie che dovrebbero riportare alla mente eventi e disastri ancora da risanare. Ma le memorie possono anche avere risvolti positivi se ci riportano a tempi in cui vigeva la fratellanza e la collaborazione; a tempi in cui il guadagno e la speculazione non erano al primo posto, ai tempi in cui l’uomo era un po’ poeta di fronte a colli verdeggianti, a marine senza fine, o a tramonti dai volti appaganti. E’ da là, forse, che l’uomo dovrebbe attingere, non per tornare addietro, ma per ripescare un passato sano da tramandare al futuro dei posteri, dacché l’identità “solo in questo dipende/ matura interrogando e interrogando agisce”:

XIV.

L’identità solo in questo dipende:
matura interrogando e interrogando agisce.
Nella cura ha la sua appartenenza
riconoscendo in uno scambio continuo
quale l’abbaglio, nel sovrapprezzo il pericolo.
Intende il prima nel tempo del dopo
faccia a faccia col proprio umano soggiungere.
Mulina colpi, ci fa invalidi
la presenza costante e avversa dei rifiuti.


Nazario Pardini


LA STORTURA DELLA RAGIONE
GIAN PIERO STEFANONI
Il ventre infertile
Maeba Sciutti
La stortura della ragione
Gian Piero Stefanoni
Prima edizione: febbraio 2011
Ebook © Clepsydra Edizioni
per Tommaso Casini

“Infuria la misconoscenza, s’abbuia la stortura della loro ragione,
o sei tu, Signore, che vuoi perdere questi uomini?”.
Mario Luzi, “La passione”.

I.
Conca di betulla, mungitura,
azzurro che ti prende.
Dalla piana un becco sottile
qualche papavero avverte
prima di collina.
“Strette in pugno le miserie ultime,
non coperte al termine del pasto,
si restava abbracciati
nelle difformità dello sguardo,
scorrendo tra le labbra
un volto anonimo”.


II.
Né più si ricorda
il luogo dov’era.
Tutto il dolore
strappato alle madri.
Un torto non bestia,
non cielo, ma pietra
ruvida come stele:
malore di sempre.


III.
Cos’altro
se non squittire?
Tu scava dalle ossa
il termine, la sostanza
in verbo precipitata,
frutto stante rosso fra gli altri.
Uomini siamo,
in nostra historia legati.


IV.
Quant’anima s’è fatta
improvvisa, terra
senza risolversi.
Basse, dalle mura aperte,
povere, care case
sbattute sul crinale.
“Coliamo, dentro le crepe scomposti,
in un irraggiungibile grido..”.


V.
Improvvida Italia,
signora di luce,
la grazia del nome
non trattiene il furore.
Scandiscono i caduti
un patto instabile,
scelleratezza domestica
ove non uso, non avvezzo
il suolo alla vite.
Sconfessa la valle
in discorde memoria,
cancella le sue mandrie
come da tributo.


VI.
Mesta, in ultima vampad’un
gioco che finisceapri
un buco nella carta
ora che ingrossi.
Diventa un treno il fiume
dieci metri sopra il livello.
In violenta successione
abbatti, appendi
ai ganci degli elicotteri
col tuo carico di combustibile.


VII.
Ed i corpi si raccolgono
tra le zeppe della corrente.
“L’ acqua ci ha trasformato
a guisa di specchio.
Quanto buio manca? Quanta luce
a questo volto rappreso?”.
Attende identità, nominazione;
muove dall’offesa il riconoscimento.
Dopo la furia la sorte divide,
resta sospesa in pudica resa.


VIII.
Ma nega se stesso e in quel rifiuto
di nuovo accade, si perpetua- nella colpa,
nei tendini- l’inesprimibile evento.
Come dirsi, come svelarsi l’errore
negli anni l’uno all’altro figlioli?
Non più chiaro, crediamo, l’orrore.
Non più vera l’imputazione dovuta.
Accresce la frana una più acuta distanza
qui la devianza in atto di esclusione partecipe.


IX.
In questo rovescio
la battitura grata alla polvere,
la consegna di un paziente dominio.
(Ha i colori del banco
spazzato via a S.Giuliano,
l’ortografia della cenere
che piegò a sé Gibellina, Sarno, Onna).
In lotta col ferro s’avviluppa
e freme padrona del seme.
Le voci segnate, prestate al sangue:
paesi, bambini
a cui nemmeno odore
più giunge.


X.
Nell’inviolabilità della norma
lo scarto, la non generabilità dell’assenza.
Nuove forme da anonimi strati
e avallamenti che il tempo poi abiura.
Un impasto a rialzare il confine
che azzera di quelle croci il passato.
Solo un gran freddo ancora oggi li attesta
in un’altra impercorribile notte.


XI.
Perchè, di sé sa il cuore
i tanti adattamenti; il crepitare,
la fede, l’umile piega del giunco.
Ma non conosce ardimenti
la desolazione che patisce,
deforma, si fa massa nel ventre.
Sostiene piuttosto
un impareggiabile esilio;
un’egritudine antica
che il fango non scrosta.


XII.
La tentazione, allora, è il furore,
la parola non detta,
la musica mai pronunziata.
Si smarrisce, tra le screpolature
e la rete@, senza voce lo scempio
che presto la costernazione confonde.
Si conforma alla festa: ritorna
il germe che è in appendice.


XIII.
Così ora è uno scontro di fedi,
di possibilità; cadere o capire
sotto la sragione e l’usura,
se il nostro spirito ne è ancora capace.
Giacché (dapprima) la vera sciagura
è il sedimento di mondo di cui ognuno è l’untore,
disconoscere ancora che patire, sulla soglia
ritratti al proprio sommesso potere.
In quale ordine una generazione cancella
le altre, steccando i passi da un idea di paese.


XIV.
L’identità solo in questo dipende:
matura interrogando e interrogando agisce.
Nella cura ha la sua appartenenza
riconoscendo in uno scambio continuo
quale l’abbaglio, nel sovrapprezzo il pericolo.
Intende il prima nel tempo del dopo
faccia a faccia col proprio umano soggiungere.
Mulina colpi, ci fa invalidi
la presenza costante e avversa dei rifiuti.



Nota dell'autore

Questo poemetto, nato come avvertito nel titolo da una visita alla Valle del Belice e alle rovine della vecchia Gibellina, vuole essere una breve meditazione poetica a partire dai luoghi in cui all’evento luttuoso della catastrofe naturale si accompagna la responsabilità di un malinteso rapporto col territorio basato, oltre che su una sua cattiva conoscenza, su uno sfruttamento disordinato ed equivoco delle risorse. Tutto ciò, celato nelle insufficienze di un sistema politico incompetente o deliberatamente mancante, manifesta i segni di una mentalità diffusa in cui a vari livelli ognuno di noi rischia al tempo stesso di esserne vittima e causa. Per sua natura non compete alla poesia nessun tipo di analisi sociologica o politica, ma fedele ad un’etica del presente che muove tra le maglie delle passioni e delle aspirazioni umane, il suo sguardo non è mai secondario dove c’è da ridare dignità e ascolto, dove, nella comune mancanza, solidarietà e sostegno possono venire anche dalla rimessa in moto della memoria nella condivisione e nel riscatto del dolore. Questo lavoro non è che un piccolo tentativo in tal senso, ben cosciente della sua insufficienza di dettato appena accennato. Ma io credo che soprattutto oggi e nella circolarità delle sue corde civili il poetico debba formarsi e informare tra le questioni e gli interrogativi che non si possono più rimandare. E quando dico poetico intendo anche i dubbi e le voci sollevate per una discussione partecipativa degli eventi, affermativa per una ricostruzione quanto mai collettiva.

Gian Piero Stefanoni
Tutti i diritti dei testi riservati all’autore
Copertina © Gian Piero Stefanoni
Ebook © Clepsydra Edizioni

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