giovedì 22 settembre 2016

N. PARDINI: LETTURA DI "PASSIFLORA" DI DONATELLA ZANELLO






Donatella Zanello: Passiflora. Ibiskos Ulivieri. Empoli. 2015. Pg. 36. € 10,00


Passiflora, il titolo di questa plaquette;  fiore della passione, per gli elementi floreali che ricordano la corona di spine e i chiodi della Passione di Cristo.  E lo trae da una poesia eponima che ci avvicina forse più di ogni altra all’amore tormentato,
doloroso, tempestoso, tenebroso, che fa da leitmotiv, da filo conduttore, da anello assemblante delle pièces di questa raccolta. Un sentimento che gioca con la vita facendone il bello e il cattivo tempo; il focus di questa confessione spontanea, diretta, ontologicamente vissuta in tutta la sua complessità:

(…)
Siamo due condannati a morte
che si amano
per l’ultima volta.

Non esiste un amore
più grande.

Ho chiuso al silenzio
le porte delle stelle (Passiflora).

Un eros vario e variabile ma potente nella sua evoluzione psicologica; nel succedersi di passionale spessore che riporta a memoria il travagliato rapporto di Catullo con la sua Lesbia:  momenti di magica lucentezza che si alternano ad altri bui, di sperdimento totale, di amara delusione, di forte inquietudine, di triste vicissitudine; un ossimorico pathos, un erotico sentire che, diluito in una versificazione sciolta e ispirata, fa della sua semplicità un valore aggiunto:

(…)
Di te amo le parole che non dici,
la tua libertà e la tua assenza,
il sogno di te, che mi  sei accanto,
in una notte d’estate,
di venti anni fa,
con la luna sulla pelle (Di te).

Un vero canzoniere d’amore che coglie ogni sfumatura di quello che è il sentimento dei sentimenti. Di quello che della vita fa ora una via crucis:

(…)
Ora soffro soltanto
distanze spietate
che io stessa ho creato
incosciente (La rocca di Portovenere),

ora una scala i cui gradini ci innalzano all’azzurrità del cielo, a luci accecanti:

(…)
Pensarti mentre viaggi
alle tue costruite vittorie
e  forse nella tua corsa
ti asciughi una lacrima di me,
dagli occhi la cui luce
ancora mi acceca (Pensarti).

Alfredo Panzini  definì i Poeti “simili al faro del mare”. Quel mare che con la sua immensità esprime il bisogno del tutto; il desiderio di elevarsi al di là della terrenità; al di là dei confini in cui siamo costretti. E il faro illumina una piccola parte di quella immensità, il resto è dominato da un buiore  che si identifica con l’ignoto, con quella parte dell’universo fisico e psicologico che non ci è dato conoscere.  È proprio il mare a farsi simbolo concreto della vicenda poetica della Zanello. Una ricerca continua, personale e approfondita di quella parte di sé a lei stessa sconosciuta. D’altronde è proprio umano non accontentasi dello spazio ristretto in cui viviamo; è proprio di ognuno di noi la spinta al viaggio, ad azzardare fughe oltre gli orizzonti, il limen della nostra caducità, oltre la miopia del nostro essere mortali. È da lì che proviene l’inquietudine del fatto di esistere, lo spleen, la malinconia delle nostre sottrazioni; di tutto ciò  che segna privazione, redde rationem, ultimazione. E questa plaquette, con tutta la sua vèrve emotiva, con tutta la sua forza esplorativa, fatta di esplosioni paniche e di significanti verbali di potenza icastica, ha la morbidezza lirica di un canto poligrafo e multicorde: gli scarti semantici, le soluzioni iconiche e un’impostazione sintattica nuova, e originale, fanno di questo libro una epigrammatica storia la cui versificazione convince e abbraccia gli input emotivi che la pervadono; una simbiotica fusione fra lunguismo ed emozioni; fra figure significanti e slanci iperbolici. E il tutto osservato e controllato dalla coscienza della precarietà del tempo, dalla visione di un’ora che fugge, senza tener di conto, nella sua precipitosa corsa, dei nostri affetti o delle nostre storie; dei nostri giorni più belli, delle nostre antiche primavere:

(…)
Sento il rumore del mare,
ricordo il salmastro
che sfiora la vela,
la magica follia
delle estati infinite,
lunga sfilata di gioie fugaci
ai miei ricordi… (La rocca di Portovenere).

 Sì, permangono le memorie, questo sacro patrimonio a cui siamo appigliati, ma in lotta perpetua contro il potere dell’oblio, destinato a vincere su tutto e su tutti. Tanti gli affetti, tanti i momenti di un divenire che ha segnato una vita; plurali le connotazioni che la  vivacizzano: amore, illusione, delusione, nostos,  thanatos, sogno:
(…)
Eppure mi amavi, ti amavo.
Signore della mia anima,
che mi amavi
e mi hai rinchiusa
nella prigione dolce
delle tue braccia.

Amore, tu mi costringi
a vivere.

Io cedo al sogno (Io cedo al sogno).

Insomma tutti quegli scarti interiori che l’arricchiscono, che ne fanno un iter unico e irripetibile; un viaggio che vorremmo tramandare al futuro, con tutta la sua forza emotiva declinata in poesia: dolori, gioie, sogni, cadute, voli, svoli, solitudini. Il tutto in un amore plurale, totale, per la figlia:

(…)
Mia ferita aperta,
come fu difficile amarti,
bocciolo di rosa,
pelle di pesca splendente,
specchio che rimanda
l’immagine riflessa…  (Una sera d’estate. A mia figlia),

la madre:

Mia madre aveva
bei capelli neri
e la pelle di porcellana,
ricordo,
pallida e bianca
come perla
e i suoi capelli
erano forse
l’unica bellezza
che l’avvolgeva
di un manto regale (A mia madre).

E il mare, la natura, tutto ciò che circonda ed ha sempre circondato la Zanello, tutta la bellezza di un panorama unico al mondo, un panorama che ha veduto poeti e scrittori  vagolare sui suoi flutti, le sue isole, o sulle colline che lo adornano, decantati in interiore (Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas); note che,  realizzate in quegli angoli di Paradiso, divengono interpreti principali di questo racconto polimorfico, dai risvolti di plurima valenza: simboli di un sentire ora forte, ora dolce, ora mansueto, ora morbido, ora tenace:

(…)
Lontani marosi
a Portovene,
al di là dell’isola,
le Rosse illuminate
dall’alba, nel silenzio.

Un peschereccio
doppia la punta
del molo, avvolto
nel volo affamato
dei gabbiani (Risveglio).

La rocca di Portovenere
nelle prime ore del mattino
dopo un’alba di luce
splende velata di azzurro… (La rocca di Portovene).

Ed è proprio nella vivacità di un panismo sapido di salmastro e di orizzonti che la Nostra ritrova se stessa, i momenti più concreti e più veri del suo percorso umano; del suo azzardo verso lontani marosi. Vere fughe verso isole che forse non esistono; veri sogni forse più veri della stessa verità; il fatto sta che da questa raccolta fuoriesce un sentimento forte e rotondo per la vita, per tutto ciò che comporta; e soprattutto per quelle rievocazioni che si fanno motivo di esistere concretizzato in un mare di libertà; in una luce di bella stagione a sfiorire sulle terrazze e sui giardini; a riportare il profumo delle cose non dette, di quelle rimaste in animo vogliose di unirsi ai colori del tramonto; con malinconia:

       (…) Fuori da qui, dalla prigione
che ovunque inutilmente mi tiene,
fuori è la luce della bella stagione che viene
con i suoi frutti maturi, aranci, limoni ed uva,
la bella stagione inevitabile che viene, come le altre,
a sfiorire sulle terrazze e sui giardini,
mentre il tramonto declina i suoi colori (Stasera il mare).



Nazario Pardini

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