venerdì 14 ottobre 2016

AURORA DE LUCA: "ASPRA TERRA... NELL'OPERA DI D. DEFELICE"


Aurora De Luca



AURORA DE LUCA: ASPRA TERRA E CREAZIONE FERTILE NELL’OPERA DI DOMENICO DEFELICE. EDIZIONI EVA. VENAFRO (IS). 2016. PAG. 150. € 10,00
 (TESI DI LAUREA)

Un libro di grande effervescenza umanistico-culturale i cui contenuti sono affidati ad un metodo di ricerca induttivo, filologico; ad uno stile semplice, nella sua complessità, comunicativo, coinvolgente a cui l’Autrice ci ha abituati con la sua plurima produzione soprattutto poetica che ho avuto il piacere di leggere e di apprezzare; una penna che indaga e assembla per farne una tesi di polisemica significanza. Questo è il lavoro di autoptica misura che Aurora De Luca ci propone: un libro ben fatto, di ben 152 pagine, apprezzabile per copertina, impaginazione, carta, ma soprattutto per il materiale che Aurora ha saputo raccogliere per mettere in evidenza il prestigioso cammino del nostro Domenico. Un vero prosimetro, questa tesi di laurea, per narrare la vita di un poeta-saggista-narratore in grandissima parte espletata nella rivista che Egli da anni dirige e di cui è il fondatore e che ogni mese gli scrittori più in vista del panorama letterario nazionale attendono curiosi per leggere poesie saggi e attualità editoriali. Aurora De Luca con le sue notevoli capacità analitico introspettive delinea un  ritratto di Defelice non solo critico ma anche umano, familiare, domestico. Ne esce una figura di uomo dai ritmi incalzanti, dai valori basilari, da un’etica  di umana consistenza: Terra e uomo, Miscellanea, Il buongiorno del poeta, Amore: dodici mesi con la ragazza, Odio e amore: La morte del Sud, Amore e odio: Canti d’amore dell’uomo feroce, Amore: Alberi?, Vita e poesia: Poesia e vita, “Pomezia-Notizie” - Le epistole, Fucina letteraria: Il mensile, Rispondenze: L’epistolario, A passeggio con Domenico Defelice… Un percorso che Aurora ha compiuto con scrupolo e competenza; con una abilità innata ma anche maturata durante il suo lavoro di collaboratrice della stessa rivista.  Mi piace aggiungere un mio contributo: una recensione  che anni orsono stilai sulla figura dello scrittore e soprattutto sul suo rapporto con la natura:

Domenico Defelice. Alberi?. Genesi Editrice. Torno. 2010. Pp. 88. 8,00

“Lungo la siepe d’edera,
che cinge il mio giardino,
svettano robinie, vecchi castagni,
[…]
È l’eden favoloso in cui mi serro
stanco della città.
Nel lavacro di verde e di profumi
la mente mia s’inebria e poi sconfina
oltre le vaste praterie del cielo.
[…].”

È qui la poesia di Defelice. In questa fuga da un mondo fattosi selva oscura, in un ritorno ai primordi di natura e bellezza. Non certamente con gli occhi al répêchage di un passatismo mitizzato, ma piuttosto  con l’animo rivolto ad un futuro migliore dove “gli Alberi” possano vivere e crescere con fronde verdeggianti fino alla loro morte, su terreni fertili e propizi, e lasciare semi buoni per rinascere.
Alberi, natura, colori, spiritualità, messianica annunciazione di terre  nuove, di mater rigenerante, di forza benefica universale a sconfiggere il male per ritrovare i valori fondanti della vita e dello spirito.
Sì!, dello spirito. Perché ogni cosa che Iddio ci ha donato pulsa di spiritualità, e ci dice di amore e di speranza, anche se spesso nascosti sotto un calvario moderno di disvalori. Alberi. Ma non lasciamoci ingannare dal titolo che a prima vista sembra introdurci ad una visione bucolico-virgiliana (anche se quel punto di domanda è determinante a farci prolungare lo sguardo verso un’interiorità di grande respiro analogico). Ma Alberi come comprimari di un panismo esistenziale; come idillio leopardiano, che volge i suoi intenti alla configurazione dell’essere e dell’esistere con lo sguardo all’Infinito. E d’altronde quale analogia poetica migliore con la vita (il nascere, il vivre, il morire, il soffrire, il gioire) di  quella delle fronde, dei bocci, dei colori, o delle impennate verdeggianti, tanto simboliche, verso il cielo. E l’esistere c’è tutto in queste raffigurazioni allegoriche. In questi messaggi metaforici, diluiti in versi dettati da esperienza metrica e spontaneità creativa. Qui  riesco a trovare momenti di alta poesia (non di rado passaggi di spartiti lirici mi chiedono emozioni da stacchi pucciniani). Una netta e simbiotica fusione fra dire e sentire che arriva immediatamente all’anima. Oh l’endecasillabo alternato maliziosamente a misure più brevi, in prevalenza settenari, come vera cascata di suoni da orchestra sinfonica! E quale utilizzo migliore della natura in poesia che quello di chiederle di noi, del nostro amare, esistere, ricordare, sperare, sognare, alludere e, perché no, soffrire?

“Ti nascondi nel ventre dell’ulivo. 
[…]
Irene, esci dal tronco, 
ch’io ti rincorra in tondo come allora;
voglio morire stremato, ansante,
falena in un ardente girotondo.” (L’ULIVO. Pp. 38).

Ed è qui la prova di quello antecedentemente notato sull’effetto di accentuazione musicale dell’endecasillabo: un importante significante metrico a evidenziare i punti focali del poema.

“Albero, se ti tocco,
con dolore mi lasci, come Imelda,
che ironica guardandoti mi dice:
se tu ci trovi tanta somiglianza
è perché abbiamo la stessa radice!” (GIUGGIOLO. Pp. 42).
 
            Gli alberi tutti si fanno disponibili e disposti a raccogliere le necessità intime del poeta e ad aiutarlo a trasferirle sul foglio rilucidate di entusiasmo etico-intellettivo, e di etimi emotivo-naturistici. Sembra quasi che l’autore sia rimasto a vivere anni ed anni fra il respiro delle foglie, fra gli slanci delle fronde; ne abbia conosciuto il linguaggio e con essi abbia dialogato, ritrovando anche antiche misure mitologiche, poeticamente indovinate nel contesto, e mai frutto di manierismi. E quanto è facile, per la vena altamente musicale del Nostro, passare dal concreto, da una realtà ben definita nei suoi caratteri topici, ad un mondo immaginifico, zeppo di riferimenti che dalla parola azzardano sguardi oltre la parola stessa. E cosa di meglio per la Poesia che insaporirla del profumo e del colore delle cose che ci legano alla donna amata, ricercando un’ eguaglianza ora erotico-memoriale, ora realistico-simbolica.

“Come sussurra placido l’ontàno
alle follie del vento.
Sopra il suo verde tronco
inciso ho un giorno
- primavera rideva sopra i colli –
CINZIA TI AMO
Che frescura d’intorno.
[…]
Che frescura d’incanto
e viva la tua pelle ancor mi pare
se con la mano 
lievemente sfioro quella freccia
sulla verde corteccia dell’ontàno.” (L’ONTANO. Pp. 44).

            Ed è la natura a dire tutto della vita in questo suo scandalo delle contraddizioni fra “le follie del vento” e il sorriso della primavera.

“Salivo quasi al buio
senza scorgere il fondo né la cima
sì cupo e intenso era il suo fogliame.
[…]
Disperata mia madre
se mi addormivo sopra le tue braccia,
sicure e dolci, meglio di una zana:
- Mico ci sei? – ei?
- Sono qui, mamma!
- Son qui! Ma dove?
- sull’amico castagno…
- Non ti fare del male – ale – ale…” (IL CASTAGNO. Pp. 48).

            Il memoriale con tutta la sua forza esplosiva sgomita, si dilata, con virulenza e dolcezza per confermare la sua esistenza e la sua voglia impellente di ritornare a vivere. E per il poeta il memoriale si fa, nel tracciato complessivo dell’opera, alcova, nirvana edenico, amore oblativo, rifugio rasserenante, in cui trovare quella pace e felicità, che il poeta spera, messianicamente, in un futuro nuovo fatto di fratellanza e di amore. Sì!, perché in Defelice prevale, senz’altro, una visione positiva della vita e degli uomini. Ciò non toglie che il mondo sia mondo con tutte le sue mancanze e tutti i suoi dolori; ed il messaggio del Nostro è tutto in una speranza: quella di poter ricostruire una convivenza etico-civile in cui il bene prevalga sul male; sebbene sia l’uno che l’altro, sia Caino che Abele, sia la luce che la notte, sia il brutto che il bello, facciano parte di quel diacronico e infinito mistero che è la vita.
            E per dire che nel poeta prevale uno smarrimento erotico-platonico o erotico-fisico è sufficiente lasciarci trasportare dai versi liricamente avvincenti quali quelli delle pièces IL NOCE, IL CILIEGIO ad esempio:

“Com’eran dolci, Armida, quei tuoi frutti:
le tue labbra di ninfa tizianesca;
quella tua pelle fresca;
l’ovale del tuo mento;
i tuoi capelli rugginosi,
fili di seta a imprigionare il vento;” (IL NOCE. Pp. 56).

L’endecasillabo finale contribuisce non poco a dare forza, con tutto il suo stacco supportato dalla misura metrica antecedente, all’enfasi di un nostalgico imperfetto temporale della figura femminile.

“Ne sceglievi i mazzetti,
bizzarra Carolina,
che legavi ai capezzoli dorati
perch’io li piluccassi
in un gioco ingenuo e leggero
per me senza malizia.” (IL CILIEGIO. Pp. 58).

Nella seconda sezione ALBERI ANCORA (E QUALCHE ARBUSTO…) l’autore sembra ispirato dalle stesse motivazioni, ma ancora più vivo è l’appello al rispetto di tutta  la natura, mater hominum et amoris, soror felicitatis et fons poēsis. E sempre eguale questo alternarsi e miscelarsi di riferimenti floreali e sentimenti esistenziali. La parola continua attenta, ora misurata, ora espansa, ora dolce, ora rattenuta, ma sempre fedele, ad accompagnare, quale contenitore di ritmi interiori, il variare dei battiti cardiaci del poeta:

“Ad aggredirlo vennero gru
metalliche; arcigni segantini
con lame scintillanti;
autocarri
a portar via le sue membra straziate;
[…]
È rimasto un tronco enorme
e due rami spezzati:
due braccia monche aperte in croce.
Un Albero-Cristo: nudo,
dolente, graffiato, solo.” (FRAMMENTI. Pp. 65-66).

“Dolce Belinda!
Il pesco intenerito
a te somiglia.” (IL PESCO. Pp. 68).

            E quale pianta si potrebbe avvicinare di più col suo dilagare di colori mediterranei, spersi in cieli di sapore salmastro, ad arditi pensieri d’amore:

“Alle carezze
la ginestra s’accende
e ti profuma
e ti addormenti,
Francesca, alla sua ombra.
Ebbre farfalle
succiano le tue ciglia
variopinte.
Dalla maglietta
trasparente susciti
richiami arditi.” (LA GINESTRA. Pp. 70).

            Canzoniere d’amore? o amore umano ed ultra/umano, amore universale affidato a un canzoniere?           
            Defelice affida alla Poesia il compito di azzardare uno sguardo generoso, speranzoso e profetico, oltre i confini di un soggiorno vincolante e ristretto per contenere tanto amore. E fa del suo messaggio un richiamo alla vita per ogni uomo che spera e che crede. (Nazario Pardini, Arena Metato 31/08/2012).    


Un lavoro limpido, come la De Luca ama definire la sua tesi: “… Insomma, un lavoro assolutamente “scapigliato” – come   io sono del resto -, appassionato sicuramente, si teme magari caotico, assai pieno di salti e rimandi e citazioni, ma forse improvvisamente organico, limpido, trasparente da vederci attraverso”.

Nazario Pardini

1 commento:

  1. Caro Nazario, leggo con grande piacere le tue parole di stima per il mio lavoro. Ho cercato di condurlo nel migliore dei modi, con l'obiettivo di presentare al pubblico un Defelice 'tridimensionale'.
    Ho cercato inoltre di rendere visibile ed esperibile la bellezza della poetica defeliciana, indagandone i ritmi e i colori, le atmosfere, quelle che non possono essere dimenticate.
    Defelice è un uomo fatto di terra, sicché lo è anche la sua poesia, ma la Poesia riesce a creare terra 'altra' e leggerissima.
    Ho cara l'intervista cui Defelice ha risposto: lì in breve c'è l'uomo e la poesia; lascia tre parole, come vademecum per coloro che la poesia la praticano: NON TRADITELA MAI.

    Aurora De Luca

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