giovedì 3 novembre 2016

N. PARDINI: TRADUZIONE E COMMENTO DI "LE CIEL..." DI PAUL VERLAINE


Paul Verlaine



LE CIEL EST PAR DESSUS LE TOIT…

Le ciel est, par-dessus le toit,
sì bleu, sì calme!
Un arbre, par-dessus le toit,
berce sa palme.

La cloche, dans le ciel qu’on voit,
doucement tinte,
un oiseau, sur l’arbre qu’on voit,
chante sa plainte.

Mon Dieu, mon Dieu, la vie est là,
simple et tranquille.
Cette paisible rumeur-là,
vient de la ville.

-qu’as-tu fait, Ô toi que voilà
pleurant sans cesse,
dis, qu’as-tu fait, toi que voilà
de ta jeunesse?

Verlaine, Sagesse


Il cielo è là sopra il tetto,
così blu, così calmo!
Un albero sopra il tetto
culla il suo ramo.

La campana, nel cielo che si intravede,
dolcemente rintocca,
un uccello, sull’albero che si vede,
canta il suo pianto.

Mio Dio, mio Dio, la vita è là
semplice e tranquilla,
questo rumore quieto
viene dalla città.

Che cosa hai fatto
tu che piangi senza interruzione
dimmi che cosa hai fatto
della tua giovinezza?

Nazario Pardini (liberamente tradotto) 


Verlaine nel 1873 è stato condannato a due anni di prigione. Qui a Mons, medita nella solitudine.
Attraverso la stretta feritoia il poeta vede la grisaglia del tetto,  un pezzo di cielo, e i rami di un albero, mosso dolcemente da una leggera brezza. La ripetizione di  par dessus le toit, che crea per l’orecchio una specie di ossessione musicale, suggerisce, altresì, per l’occhio e lo spirito, la ristrettezza dell’orizzonte visibile. Ma il prigioniero ritrova tutto un universo dimenticato in una fuga dello sguardo verso la libera natura: racchiuso in una cella dai tristi muri nudi, si meraviglia per questo angolo d’azzurro e per questo fogliame, come se i suoi occhi si aprissero per la prima volta; e allo stesso tempo, le parole di cui si serve,  messe in evidenza da un linguaggio poetico, trovano tutto il potere suggestivo di cui le spoglia l’uso comune: ciel, arbre, in testa al terzo verso, i due aggettivi bleu e calme, rafforzati dalla ripetizione dell’intensivo sì. Fra le due prime strofe c’è un legame stretto e una profonda analogia strutturale. Il triste tetto sembra dimenticato,  ma lo sguardo, captato dal cielo e dall’albero, si attarda nella contemplazione; le due parole riprese sono evidenziate dalla ripetizione di qu’on voit, che traduce lo sbigottimento ingenuo del poeta. Ma le sensazioni uditive si congiungono a quelle visive: nel cielo  si sgranano i suoni di una campana, suggeriti dalle delicate sonorità del secondo verso (doucement tinte); da questo albero sgorga il pianto dell’uccello, reso dall’armonia un po’ trascinante dell’ultimo verso (chante sa plainte), il cui ritmo fa eco a quelli dell’ultimo verso della strofa precedente (berce sa palme). Al contrario, fra la seconda e la terza strofa, sembra esserci una specie di rottura. Un duplice grido: mon Dieu, mon Dieu, succede ad un seguito di impressioni quiete, pacate: possiamo leggerci una esclamazione di un patetico familiare o un vero appello di soccorso di questa anima in angoscia e già presa da preoccupazioni mistiche?
Il movimento annuncia comunque un ritorno su se stesso. Malgrado le apparenze la continuità con l’inizio è reale: le impressioni visive, quelle uditive che qui si sono associate, hanno finito per suggerire, con il contributo dell’immaginazione che le prolunga, il ricordo di una vita semplice e tranquilla di cui il poeta ha disconosciuto, nei suoi sbandamenti passati, la commovente seduzione. La vita è là, vicina; gli sono giunti immagini e suoni, confusamente i rumori della città. Scoperta tragica per un prigioniero racchiuso dalle spesse mura di una cella come in una tomba. Q’as-tu fait de ta jeunesse? La sua giovinezza sono i sogni di un poeta preso dalla purezza, esaltato dall’amore; e la parola è così ammirabile per la sua semplicità quanto “il cielo” dell’inizio. Ecco ciò che il poeta si è lasciato sfuggire. Ma la profondità della sua disperazione prova che sta risalendo dall’abisso; e in questa stessa prigione riceverà la divina consolazione della grazia.

Verlaine ci offre uno degli esempi più puri della sua arte: quello di esprimere con trascrizione diretta stati d’animo provati e vissuti, tramite le risorse musicali del linguaggio poetico, senza  ricorrere agli artifici letterari né all’eloquenza. 

Nazario Pardini

3 commenti:

  1. Una splendida analisi che tocca, attraverso la conoscenza sicura della lingua d’origine, sottigliezze, profondità, ritmicità della stupita sbigottita disperata voce poetante, e la musica ripetitiva, ossessiva, ma senza enfasi, della vita che ci sfugge.
    Il modello di scrittura dell’Autore è profondamente vicino a quello del Traduttore- è semplice, classicheggiante, limpido e spoglio: è il linguaggio della verità-nuda- in cui si esprimono le ferite di una vita lacerata

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  2. Ringrazio Nazario per la proposta della poesia di Verlaine: c'è bisogno - io credo - di canto: un canto che sappia lenire qualunque ferita; è l'anima (nostra ed universale) ad averne una necessità improrogabile; è la terra, nostra Madre, a volerlo ascoltare come se fosse una ninna nanna che siamo noi ad offrirle. E mi piace riportare la conclusione di Nazario perché serva a non dimenticare il più alto compito della poesia: "Verlaine ci offre uno degli esempi più puri della sua arte: quello di esprimere con trascrizione diretta stati d’animo provati e vissuti, tramite le risorse musicali del linguaggio poetico, senza ricorrere agli artifici letterari né all’eloquenza.".

    Sandro Angelucci

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  3. E' vero, Nazario. Ognuno ha un abisso. Lo aveva Baudelaire "Le gouffre". Ne aveva più di uno: Non è facile contarli, ma ne aveva più di cento, ai quali aggiungeva quelli di Pascal, che "aveva il suo baratro, che con lui si muoveva/aimè!tutto un abisso - , azione, desiderio, sogno/parola (....) In alto, in basso,ovunque il precipizio, la riva,/il silenzio, lo spazio orrendo ed attraente". E anche Verlaine aveva i suoi abissi, i suoi pentimenti, le sue paure, i suoi fallimenti da cui tenta di uscire. Tu li hai colti con precisione, da par tuo. Ed è vero, per riassaporare la bellezza della vita, bisogna prima scendere negli abissi, vedere il buio e vivere la paura nella pelle e nelle ossa. Quanta disperazione - pur senza esplosioni, ma con la rivolta nell'anima - in quel suo "Cosa hai fatto tu,O tu che/piangendo senza sosta//dimmi cosa hai fatto tu, ecco, della tua giovinezza ?"
    E' sempre gratificante leggere una poesia come questa di Verlaine con un tuo commento, come sempre, di grande levatura esegetica. Grazie per questo dono.

    Umberto Cerio

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