giovedì 20 luglio 2017

N. PARDINI LEGGE: " SINESTESIE DELL'IO" DI DANIELA CECCHINI



Daniela Cecchini: Sinestesie dell’io. La Caravella Editrice. Segrate (MI). 2016. Pagg. 86. € 10,00

Anima, spirito, corpo.
L’anima, prigioniera del suo involucro
si affanna, poi soffoca.
Ma mette le ali
quando si nutre
di vita interiore.
Spazio che non è lusso
ma scrigno di respiri di libertà.

Prigione, anima, spazio, volo verso l’alto, oltre i limiti che la vita ci impone; oltre le ristrettezze del vivere. Illusioni, delusioni, sottrazioni, oniriche alcove, ritmi incolori dell’esistenza, vereconda ricerca di precaria felicità. Iniziare da questi versi significa  andare da subito a fondo nel cuore della silloge; nel messaggio focale di uno spirito che è in cerca di un’isola di difficile approdo, dove le dimensioni umane si sfumano in lampi d’infinito; in viaggi improbabili; in disattese aspettative. Tutto sembra farsi illusione, sorrisi di pianto, inesauribile memoria, dove persino l’amore si fa gioco di ossimorici abbrivi: “… In fretta volto pagina,/ decido di non pensarti,/ ma le braccia mie/ vorrebbero accoglierti”. Un simbiotica fusione di luce e ombra che tanto sa di vita.
Sinestesia dell’io: tentativo di offrire all’anima, al respiro, alle palpitazioni, ad ogni vertigine sensoriale ed emotiva, i colori più vari dell’ontologica vicenda umana. Un io che si frantuma in mille sfumature per darsi ad una società non sempre egalitaria, non sempre disposta o disponibile a comprendere le esigenze di una realtà il più delle volte offesa dall’egoismo o  dall’indifferenza. Insomma un viaggio fra gente e  vicende di una poetica che attrae e convince per linearità strutturale, per tenuta metrica, per figure significanti ma soprattutto per una paradigmatica inclusione di significanza che gioca con effetti conturbanti sul nostro magma di viventi. Sì, un viaggio, un nostos, un nostoi; una navigazione su un mare zeppo di tranelli e di scogli appuntiti e aguzzi, su cui è facile perdere la rotta, perdere la visione di un faro che ci illumini; dacché il viaggio che noi ci riproponiamo in seno alle aporie di una convivenza difficile, è anche lo stesso che indirizziamo verso la luce del nostro esistere; della nostra coscienza; del nostro epigrammatico esilio in un mistero che ci avviluppa. Questo è il viaggio della Cecchini; la sua ardita immersione nei pelaghi dell’io. Dare soluzioni giuste e socialmente edificanti non è di certo difficile; lo è invece affrontare le questioni di una esistenza che ci vede qui invece che là; che ci vede in un mondo di estrema precarietà nei confronti di un tutto verso cui allunghiamo lo sguardo troppo effimero per le  miopie terrene: i perché irrisolti e irrisolvibili: chi siamo? Cosa vogliamo? Quale il ruolo della nostra vicenda esistenziale? Quale la fine del nostro patrimonio memoriale? E il nostro rapporto col tempo? Con quella clessidra che fa scivolare i suoi granelli senza tenere di conto del nostro esser-ci? Tanti gli interrogativi che ci poniamo durante il viaggio e a cui difficile è dare una risposta, soprattutto quando ci misuriamo con l’infinito, noi piccoli esseri mortali. Questi gli scogli aguzzi della navigazione. Questo il nostro andare per un mare a volte in bonaccia, altre tormentato da venti che squassano le vele. Sì, possiamo continuare con ciò che rimane dopo avere sbattuto; magari con una tavola superstite, non del tutto danneggiata, nella speranza di incontrare quella luce che ci illumini durante il cammino.  La Cecchini è fragile come ogni umano, è debole di fronte a una clessidra, di fronte al gioco dell’eterno su di lei cosciente della sua precarietà. Non c’è via di fuga:

casa senza finestre:
simulacro delle mie delusioni.
Nell’accecante buio brancolo,
via di fuga invano cerco.
Un dedalo di implosioni
dilanianti,
ma necessarie
per sperare nella luce.

Ma sa trovare i suoi convincimenti di fronte alle ingiustizie macroscopiche che si vede davanti. Lì c’è certezza; lì è necessario dare fuoco alle polveri; innervare la poesia di substantia; e tutto scorre ex abundantia cordis, da un’anima ricca di un patrimonio etico-civile che cerca una verbalità adeguata a dare corpo a tanto sentire: le parole si accavallano, si danno forza l’una l’altra, si impennano, si assiepano ora in iuncturae brevi e secche, ora in ampie cavalcate narrative per dire di Bambini tra macerie, di Diritto negato, di Innocenza venduta, di una Umanità ostaggio di male, di un Naufragio, di Un grido contro l’infibulazione, o di un Viaggio di sola  andata. Qui il grido a volte acuto a volte contenuto della scrittrice risuona sulle coste; sulla bocca del porto che ha imboccato; risuona, fa eco, entra, sperando di fare breccia, di svegliare le anime pigre, le anime mute; il tonante silenzio ereditato “da chi nasce madre,/ come me…”:

Tonante silenzio di anime mute
sempre più forte avverto.
Lo stesso ereditato
da chi nasce madre,
come me.
Solo sfingei,
impenetrabili silenzi
di rassegnata rinuncia.
Celati intenti,
intima mia coscienza
di ricerca negata.
Coraggio che non ci appartiene,
per uccisa dignità. (Silenzio A tutte le donne private della libertà d’opinione)

Questa la poesia di Daniela: è zeppa di vita, di meditazioni, di tracce, di solitudini e incontri. Un insieme di sinestetiche inclusioni riflessive, dove il verbo, con tutta la sua estensione significante, dà sfogo alla schiettezza di un sentire forte e vitale. Scrive Pascal: “Cos'è un uomo nella Natura? Un nulla davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto.”. Sono affermazioni che danno un quadro esatto della stesura poematica della Nostra. Della sua ricerca interiore, di quello che prova di fronte alla complessità del suo essere. D'altronde la vita è questa e sono pochi i margini che lascia per uscirne indenni. Gli input emotivi restano, si  gonfiano, si moltiplicano dentro di noi generando malum vitae e perplessità.  Ma è proprio dal serbatoio di tali emozioni che nasce il malinconico flusso di saudade, il terreno fertile della poesia; dalla ricerca incessante di noi stessi in viaggio verso “casa” «Dove siete diretti?» la domanda ai viandanti nello Heinrich von Ofterdingen (1798-1801), di Novalis. La risposta «Sempre verso casa»: il viaggio quale odissea, quale metafora della vita.

Nazario Pardini
10/07/2017


Nessun commento:

Posta un commento