mercoledì 3 gennaio 2018

M. GRAZIA FERRARIS: "O. PAMUK E LA RISCOPERTA DEL MITO"

Maria Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade


I grandi scrittori internazionali. O. Pamuk e la riscoperta del mito

Gli strumenti letterari di cui mi servo e che mi mettono in comunicazione con mondi e culture apparentemente lontanissime e diversissime, – storiche e geografiche –, mi ripropongono in continuazione il problema che i grandi letterati sanno tradurre con incomparabile emozione nell’immaginario poetico, romanzesco ed autobiografico.
Nonostante la cultura occidentale e post moderna abbia messo tra parentesi i miti classici per valorizzare lo sviluppo della tecnica e della scienza, pure ancor oggi la storia, la politica, la società, la scienza e le culture  sono ancora costruite su miti: cosa sono, infatti, gli idoli di oggi se non surrogati dei vecchi miti?… L’ultimo romanzo  del Nobel  O. Pamuk, 2017, LA DONNA DAI CAPELLI ROSSI ci riporta nel cuore delle problematiche che Pamuk espresse a varie riprese nei suoi romanzi;  intreccia una storia ambientata nella periferia di Istanbul tra gli anni ’80 e i nostri giorni, con le  radici più profonde del mito.
 Il  vero problema mi pare sia quello di interrogarci sul tema più sotterraneo, più culturalmente intrigante dell’identità e dell’autenticità, tema che sta alla base del romanzo, e che si deve pur affrontare convivendo con le modernità esasperate, mutanti e rutilanti della globalizzazione.
I miti  operano su quelli che secondo gli antropologi sono le dimensioni archetipiche del mondo umano (vita, morte, amore) e sugli elementi fondativi della vita nell’universo e dunque anche della cultura sociale (acqua, terra, aria, fuoco). Rafforzano perciò le tradizioni e i legami collettivi, insegnando alle persone che la vita può trionfare sulla morte e che dunque è possibile risolvere la contraddizione principale che si trova alla base dell’esistenza umana. I miti, infatti, dicono gli antropologi, sono anche delle narrazioni costruite con l’obiettivo di armonizzare e facilitare le relazioni esistenti tra gli esseri umani e ciò che va al di là della loro quotidianità, a cominciare dalla dimensione del sacro. Il  mito racconta da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo, e queste domande rimangono inalterate ancora oggi; occorre guardare il mondo di oggi con gli occhi del mito: è un messaggio forte che trova la sua verità nel fatto che i miti – e gli eroi – costituiscono la necessità permanente dell’umanità di andare oltre la terrestrità proiettandosi in una dimensione superiore, in una vita più grande, in un racconto di fondazione.
I miti sono, a ben riflettere, fondati sul nostro modo di vedere, sugli occhi, che riescono ad intercettare “l’immagine riflessa della verità”,e fungono quasi da “ facoltà d’intuizione”, che ha le sue radici negli strati più profondi dell’anima: la facoltà capace di afferrare intuitivamente le realtà invisibili, trascendenti; con gli occhi del mito l’uomo ha la possibilità di ricercare la “verità dell’interpretazione metafisica” che tende a ricostruire le fondamenta di una società dove gli idoli e i suoi surrogati hanno fatto piazza pulita di ogni dimensione valoriale.
Si guarda al mito come ad un “bisogno dell’anima”: non è una mera illusione o un semplice frutto della fantasia, ma un’intuizione che entra nella dimensione della verità dell’ “oltre” ove scorgere il bello del mondo. E il mito è gratuito, essenziale, rivolto al bello, radicato nella tradizione, nella ripetizione e nel rito ma aperto all’eccezionale, al miracoloso. Il mito, insomma, riporta l’uomo alle origini di se stesso, perché nessuna cultura riesce a fare a meno dei miti  che costituiscono una sorta di osservatorio in grado di capire, spiegare e interpretare gli accadimenti che avvengono nel nostro tempo, siano essi politici, sociali, economici, religiosi, culturali.
Queste le considerazioni  per avvicinarmi al mondo mitico di O. Pamuk.
Oran Pamuk è il primo autore turco (è nato ad Istanbul nel 1952) ad essere stato  insignito del premio Nobel (2006)  per la letteratura ad assurgere a questo onore mondiale.
Certo non è estranea alla sua fama l’intervento deciso, di ammissione, circa il tema, da sempre contestato in Turchia, argomento considerato tabu, del genocidio degli Armeni del 1915, che gli è costato il processo…., ma senza dubbio il suo indiscutibile valore si focalizza nella multiforme produzione letteraria, nella sua capacità affabulatoria, nei suoi notevoli e ben conosciuti romanzi,
( scrive continuativamente dal 1974) ormai tradotti regolarmente in Italia da Einaudi.
Orhan Pamuk racconta, con trame complesse e ricche di particolari, la storia e la cultura della Turchia, attraverso il succedersi delle generazioni, e le tensioni fra laicità e religione, modernità e tradizione. I suoi personaggi sono espressione delle forze che attraversano il mondo turco, mentre si interrogano sulla propria identità, indagano e mettono in questione la storia e la cultura di cui fanno parte, e si dibattono fra tradizione e modernità, Islam e laicità.
Con la sua città natale – Istanbul-, Pamuk ha un rapporto particolare, ed è sempre stata al centro della sua opera. Nel 2003 le ha dedicato un libro di memorie, Istanbul, un originale romanzo, in gran parte autobiografico, in parte storico, coi ricordi e la città, raccontando il complesso rapporto tra oriente e occidente che essa incarna. È in questa città o attorno ad essa che spesso si svolgono le vicende che racconta e si chiarisce la sua personalità. Essere “doppio” è una metafora di cui Pamuk si serve per raccontarci a suo modo il nodo in cui ci dibattiamo: la radice nel passato, il futuro diverso, moderno che ci alletta, col rischio di corteggiare l’alienazione: “Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull'altra riva, l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere totalmente né all'una né all'altra svelava il più bello dei paesaggi. Istanbul come sentimento di identità, talvolta difficile e faticosa, dolorosa, talvolta gratificante, ma vissuta anche come incapacità di uscirne, per eccesso di fantasia che si nutre del quotidiano e su di esso si sorregge e riproduce in modo creativo, talvolta ancora perché il conosciuto dà sicurezza e pur apre alla possibilità di cambiare il punto di vista, di aprirsi all’altrove.
Ne Il libro nero l’ha dipinta come una città labirintica e malinconica, contemporaneamente orientale e occidentale, dove fantasia e realtà si sovrappongono, dove è quasi impossibile distinguere fra il vero e il falso. Istanbul come crocevia tra l’Europa e l’Asia,  un ponte fra questi due mondi, è una città che ha incontrato i grandi viaggiatori occidentali ottocenteschi, come Nerval, Gautier e Flaubert, e si è confrontata con i loro giudizi, spesso affascinati dai miraggi del suo esotismo. È una città che conserva l’identità orientale, ma allo stesso tempo invidia le qualità e i successi dell’occidente. Soprattutto Istanbul, afferma Pamuk, è dominata da una particolare tristezza, che i turchi chiamano “hüzün e di cui in qualche modo vanno orgogliosi: nata dal declino dell’impero ottomano, dai sogni delusi di grandezza della Turchia moderna, dalle antiche rovine che le case hanno inglobato senza cancellare, dal legno delle vecchie costruzioni che si annerisce per l’umidità e il freddo, si nutre di innumerevoli dettagli… Ogni volta che mi soffermo sulla bellezza e la poesia del Bosforo, di Istanbul e delle strade buie, una voce dentro di me mi invita ad amplificare le virtù della città in cui vivo, proprio per nascondere a me stesso le lacune della mia esistenza, come gli scrittori delle generazioni precedenti..”

Con Il museo dell’innocenza,  racconta la storia d’amore di un ricco giovane, Kemal, che sacrifica tutta la sua vita, dal matrimonio con la precedente ragazza fino alla carriera imprenditoriale, dagli amici alla propria reputazione pubblica, per amore della splendida Fusun. Il museo raccoglie gli oggetti collezionati da Kemal come ricordi del tempo passato con Fusun, segno d’amore per Fusun, ma anche per la Istanbul di quegli anni ’70 e ’80, quando erano assieme, gli anni più belli della sua vita.  L’opera di Pamuk mantiene un legame profondo tanto con la storia passata della Turchia,( si pensi ad opere come Il mio nome è rosso o Il castello bianco, ambientate nella Turchia del XVII secolo), quanto con la società turca contemporanea, e la politica non può non entrarvi con prepotenza, dal momento che la storia della Turchia moderna, fino ai giorni nostri, è un susseguirsi di sconvolgimenti politici: il disfacimento dell’Impero ottomano e la rivoluzione kemalista di Atatürk, la nascita della Repubblica e i colpi di stato militari degli anni Settanta. Fino agli ultimi eventi contemporanei… Il  romanzo più legato alla attualità politica  è Neve. 
Pamuk ci racconta del poeta Ka, che ritorna in Turchia dalla Germania dove vive da anni in esilio per scrivere degli articoli su una serie di suicidi avvenuti a Kars: parecchie ragazze si sono tolte la vita piuttosto che togliersi il velo per continuare a frequentare l’università.
   Un viaggio di ritorno, quello di Ka, che è un ritorno alle origini e alla propria cultura, senza però cancellare la sua esperienza di vita all’estero, in quell’Occidente a cui si guarda con un sentimento misto di ammirazione, desiderio di emulazione e disprezzo: si ammira la ricchezza, l’abbondanza di beni materiali, la libertà, e si disprezza la controparte di tutto questo, la mancanza di spiritualità e la licenziosità. una storia legata alla mitologia orientale. È un libro senza risposte e pieno di domande. Un libro - almeno ai nostri occhi - rivolto all’Europa, perché la Turchia è una specie di laboratorio, un paese aggrappato al nostro continente e insieme un paese tutto avvolto dalle contraddizioni del Medio Oriente e dell’Islam. Un paese dove essere occidentali significa impedire alle ragazze di usare il velo, ma anche usare l’esercito per tenere a bada i poveri e quel richiamo all’Islam che la borghesia nazionale avverte come un richiamo al passato e all’arretratezza. Un paese dove parole come Illuminismo e ordine sono sembrate sinonimi, dove gli studenti di sinistra venivano mandati in carcere insieme agli imam tradizionalisti.
Un protagonista, Blu, il leader  degli integralisti gli raccontò una storia:
“ In Iran, c’era una volta un eroe straordinario, un guerriero instancabile. Tutti lo conoscevano e lo amavano. Anche noi oggi lo chiamiamo Rüstem, come lo chiamavano coloro che lo amavano.
Un giorno Rüstem andò a caccia e smarrì la via: si fece notte e durante il sonno perse il suo cavallo Rakş. Mentre lo cercava, entrò nelle terre dei suoi nemici, nelle terre di Turan. Ma la sua fama lo aveva preceduto e venne riconosciuto e trattato con ogni riguardo.  Lo scià organizzò un banchetto in suo onore. Dopo il banchetto arrivò nella sua stanza la figlia dello scià che gli dichiarò il suo amore e disse che voleva un figlio da lui: lo convinse con la sua avvenenza e le sue belle parole.
La mattina Rüstem lasciò un bracciale al bimbo che sarebbe nato e lasciò il paese. Il bambino nacque e lo chiamarono Suhrab. Quando seppe di chi era figlio meditò di far salire al trono dell’Iran suo padre e lui stesso nel Turan. Avrebbero governato con giustizia tutto il mondo.
Ma spie, furbizie e inganni fecero sì che all’incontro il figlio non riconoscesse il padre.
I due guerrieri corazzati cominciarono a combattere, e dopo essersi scannati per ore, si ritirarono stanchi morti senza che nessuno avesse vinto. Al secondo giorno la fortuna sorrise a Suhrab. Con il pugnale sguainato sta per sferrare il colpo di grazia quando corrono a dirgli: <In Iran non è tradizione prendere la testa del guerriero nemico subito la prima volta. Non ucciderlo, sarebbe scortesia>. E Surhan non uccide suo padre. Ma il terzo giorno, a dispetto di ogni attesa, il combattimento ha una fine repentina. Rüstem disarciona Surhab e con uno slancio gli ficca la spada nel petto e lo uccide. La velocità dell’azione è sorprendente quanto la violenza. Allorché dal bracciale Rüstem capisce di aver ucciso il figlio, s’inginocchia a terra, abbraccia il cadavere sanguinante e piange. Surab che ha agito per amore del padre, viene ucciso dal padre.
Questa storia ha come minimo mille anni è raccontata dal poeta Firdusi. Una volta milioni di persone la conoscevano. Oggi in Occidente si pensa al parricidio di Edipo e alla morte di Macbeth, abbiamo dimenticato questa storia per l’ammirazione dell’Occidente.”

Pamuk ci vuol dire che gli dei della Grecia cantati in Occidente sono ancora tra noi e soprattutto non lontani da quelli dell’Oriente. L’Iliade e l’Odissea sono alle origini della nostra letteratura, sempre reinterpretate e riscritte a cominciare da Eschilo per arrivare a James Joyce.
L’ultimo romanzo di Pamuk  tesse un dialogo tra l’idea di parricidio come simbolo della ribellione occidentale contro il potere, contrapposto al concetto di figlicidio, che emerge con forza  tramite la leggenda del guerriero Rostam che assassina inconsapevolmente il figlio in un campo di battaglia, e che, secondo Pamuk, rappresenta la figura autoritaria asiatica.
Storie che parlano di giustizia e destino, di padri e figli, come quella di Giuseppe e i suoi fratelli, figli di Giacobbe, che per gelosia lo buttano nel pozzo. A sua volta il giovane protagonista  “con la forza impetuosa di un ricordo vissuto in prima persona”, racconta la storia che ha letto in un libro sull’interpretazione dei sogni e solo anni dopo ritroverà in Sofocle: Edipo che uccide il padre, sposa e fa figli con la madre dando compimento senza saperlo al destino annunciato proprio quando tenta di sottrarvisi. E ugualmente quando cercherà di scoprire il colpevole della peste che si è abbattuta su Tebe per punirlo dei suoi misfatti.
A fargli scoprire “l’altro io che c’è in noi” è soprattutto l’incontro perturbante con la Donna dai capelli rossi, che ha il doppio dei suoi anni ma lo rapisce fin dal primo scambio di sguardi nelle strade del vicino paese, dove la insegue furtivamente per giorni, gli compare in sogni “che mi si schiudevano nella testa come fiori selvatici”, fino a una notte indimenticabile di sconvolgente passione e sessualità in cui scopre il “vero se stesso”.
La storia prende qui una brusca accelerazione nel concatenarsi di susseguenti eventi dirompenti.
L’intreccio realistico si fa simbolico, in un potente gioco di specchi e riprende nella seconda parte dopo una lunga cesura temporale.
Sono gli anni dell’ascesa al potere del nuovo partito islamico e, qui come altrove, si aprono scorci di una declinazione anche politica dei temi della libertà e della dipendenza, del paternalismo dispotico e delle multiformi servitù volontarie. La “parte oscura” del passato mai del tutto rimosso continua a interrogare il protagonista, filtrata attraverso suggestioni letterarie o pittoriche di ogni epoca e civiltà in cui la vede adombrata,  la “parte oscura” del passato mai del tutto rimosso continua a interrogarlo. E sarà il demone della curiosità, quando per un gesto imprudente si trova a fronteggiare l’enigma di una sua presunta paternità, a farlo precipitare in una sequenza di eventi sorprendenti, sfidati con ignara hybris fino al drammatico scioglimento finale della vicenda. Epilogo affidato al rientro in scena della fatale Donna dai capelli rossi, che riprende la parola rivelandosi la vera regista del teatro dei molti destini incrociati giunti a compimento nella rete invisibile di legami, di colpe inconsapevoli e occulte, che hanno annodato in una trama sotterranea la recita delle loro vite.
Un mito dell’Occidente che s’intreccia, a Istanbul, con un racconto della mitologia persiana e islamica. Parricidio e figlicidio. Le imperfette democrazie nostrane contro l’arcaico dispotismo dell’Est. Il tutto sull’impianto di un intreccio cucito con fascino e tensione.
Cosa spiega questa stagionale tendenza letteraria che rispolvera la tragedia greca e risveglia gli dei? Forse la greca semplicità archetipica della tragedia umana è sopravvissuta anche ai precoci annunci della morte del romanzo, alla letteratura post-moderna, alla moda della saggistica e della reality fiction proprio perché interpreta al meglio un’universale umanità che sembra esser cambiata poco dai tempi di Zeus e Atena.
È proprio la necessità di trovare un senso  ai nostri incubi quotidiani, alle nostre paure, nelle promenade europee, o tra la polvere dei bombardamenti siriani, che la letteratura scava di nuovo nelle sue origini per cercare una spiegazione che può essere la ciclicità della storia, o il fatto che l’umanità è irrimediabilmente piccola, feroce, vendicativa, ma capace anche di gesti nobili, di amore e sacrificio.
Gli archetipi mitologici e le tragedie greche saranno pure una semplificazione delle tragedie del presente, ma delineano un’immagine più nitida di come vanno le cose, creando una storia con un significato che non si lascia né  intimidire né manipolare.



7 commenti:

  1. Un saggio di finissima interpretazione critica; di elevate conoscenze letterarie; e di rara rielaborazione creativa. "...Un mito dell’Occidente che s’intreccia, a Istanbul, con un racconto della mitologia persiana e islamica. Parricidio e figlicidio. Le imperfette democrazie nostrane contro l’arcaico dispotismo dell’Est. Il tutto sull’impianto di un intreccio cucito con fascino e tensione". La vastità del tema è ben controllata da una narrazione fluida e avvincente.

    Bozzi Angelo

    RispondiElimina
  2. Maria Grazia possiede capacità esegetiche che le consentono di renderci edotti su molti scrittori con disinvoltura e rara elasticità mentale. Nel caso dell'autore turco Pamuk,Premio Nobel 2006, s'addentra nella sua ossessione inerente il mito. Oserei dire che si tratta del tema prediletto dal nostro Franco Campegiani, il quale ci illumina da anni sulla valenza di questo argomento. Non fiaba, leggenda, ma conoscenza. Nel caso di Pamuk e della sua opera "La donna dai capelli rossi", Maria Grazia Ferraris conduce una lunga e interessantissima disamina sul senso del mito e delle tragedie greche. La chiusa, quanto mai esplicativa, riassume il senso dei vari concetti 'Gli archetipi mitologici e le tragedie greche saranno pure un’eccessiva semplificazione delle sfumature del presente, ma aiutano a dissipare la confusione e il rumore dell’adesso, delineando un’immagine più nitida di come vanno le cose', creando una storia accettabile, con un inizio e una fine. Danno un significato alla ciclicità delle vicende che stiamo vivendo e rendono il male un concetto intellegibile esattamente come il bene. Ringrazio Maria Grazia e l'abbraccio!
    Maria Rizzi

    RispondiElimina
  3. Trovo estremamente stimolanti queste riflessioni della Ferraris sulla figura di uno dei maggiori narratori dei nostri tempi, il turco Orhan Pamuk, Nobel 2006. Il discorso ruota intorno alla riscoperta del mito, argomento da cui da sempre io sono affascinato per le implicazioni che direi rivoluzionarie che contiene, in una cultura omologata, massificata e piatta come quella in cui viviamo. Maria Rizzi è una cara amica e conosce a fondo le mie pulsioni culturali, ma dovrebbe rendersi conto che di fronte a giganti come quello oggetto del presente studio il sottoscritto non è che un misero orecchiante. Io ho tutto da apprendere da un autore di orizzonti così vasti, che ha fatto della riscoperta del mito il tema fondamentale della sua ricerca artistica. Pamuk, dice la Ferraris, si sente "ponte tra due rive", occidentale e orientale nello stesso tempo. E aggiunge: "Essere doppio è una metafora di cui egli si serve per raccontarci a suo modo il nodo in cui ci dibattiamo... col rischio di corteggiare l'alienazione". Ed è paradossale che si corra questo rischio proprio nel momento in cui si parla del mito, ovvero del "tema più sotterraneo, più culturalmente intrigante dell'identità e dell'autenticità... che si deve pur affrontare convivendo con le modernità esasperate, mutanti e rutilanti della globalizzazione". Il mondo occidentale ha coltivato lungamente la presunzione che i problemi dell'anima potessero essere superati e accantonati, ma proprio nel momento in cui la massificazione e l'omologazione sembrava potessero avere partita vinta, ecco che l'interiorità profonda, sentendosi compressa e minacciata, è esplosa sotto forma di un inconscio sempre più inquietante e livido, pericoloso. Ma dove l'Occidente opulento mostra di essere spiritualmente povero, l'Oriente spiritualmente ricchissimo risulta materialmente povero. Tra queste due pulsioni si muove l'universo culturale ed umano di Pamuk ed io trovo sommamente interessante, parlando del parricidio di Edipo, la seguente riflessione della Ferraris: "L'ultimo romanzo di Pamuk tesse un dialogo tra l'idea di parricidio come simbolo della ribellione occidentale contro il potere, contrapposto al concetto di figlicidio, che emerge con forza tramite la leggenda del guerriero Rostam che assassina inconsapevolmente il figlio in un campo di battaglia, e che, secondo Pamuk, rappresenta la figura autoritaria asiatica". Dove l'Occidente tende a soffocare lo spirito, l'Oriente tende a soffocare la materialità. Sempre e comunque di soffocamento parliamo, ma forse i tempi sono maturi per tentare vie diverse, che sappiano finalmente tendere all'equilibrio tra i due piani. Come del resto viene da sempre indicato, ma raramente realizzato, da quella conoscenza universale che prende il nome di Armonia dei Contrari.
    Franco Campegiani

    RispondiElimina
  4. Ringrazio i lettori partecipi (A. Bozzi, M. Rizzi, F. Campegiani) che hanno sottolineato sia la vastità del tema che l’interpretazione dello scrittore O. Pamuk: certo vale la pena di leggere almeno un romanzo di questo grande scrittore. Ci darà le coordinate per entrare in questo -vicino- mondo orientale , nelle sue ambiguità e contraddizioni , ma anche di confrontarci con i nostri temi privilegiati (identità, doppio, paradosso, mito…) e con la potenza conoscitiva della letteratura e della lettura.
    Pamuk scrive : “… l’effetto vero, esclusivo, di quest’arte è fondamentalmente diverso da quello degli altri generi letterari, del cinema e della pittura. …Pagina dopo pagina, quel mondo nuovo si cristallizza e acquista nitidezza, come quei disegni segreti che appaiono a poco a poco Quando siamo immersi in un romanzo, la nostra mente lavora sodo …come quando ci si versa sopra un reagente; e vengono messi a fuoco linee, ombre, avvenimenti e personaggi. Essere un romanziere è l’arte di essere nello stesso tempo ingenuo e riflessivo…”

    RispondiElimina
  5. Il caro amico Franco Campegiani si auto definisce un "misero orecchiante" su un argomento -il mito- cui è stato sempre "affascinato". Ma allora il sottoscritto, che ne è completamente a digiuno, è fisiologico sentirmi meno di una virgola di questo dotto saggio critico su uno scrittore Nobel ed internazionale quale O. PAMUK. Non mi resta che fare i complimenti più che sentiti alla Prof. Ferraris per tanta capacità critica ed incuneante perchè questo (pur nella mia pochezza curturale in merito) l'ho percepito tutto al compimento della lettura di questo eccezionale lavoro critico che denota lavorio fisico, acutezza mentale e certo determinatezza nel suo porlo in essere. La mia più profonda ammirazione Sig/ra Ferraris. Mi permetto esporre uno spontaneo quesito, dettato forse dalla mia sconoscenza totale in merito: " perchè anche il mito del 3° Millennio ha necessità per imporsi di violenza,padricidio? Pasqualino Cinnirella

    RispondiElimina
  6. Ringrazio P. C. per la sua partecipazione. La domanda che pone sottintende un’argomentazione letteraria, storica e psicologica e una documentazione vasta e complessa. Mi limito a qualche suggerimento. (Secondo Freud, nell’uomo con lo sviluppo avverrebbe la costituzione dell’Ideale dell’Io o Super-Io, cioè di quella istanza che corrisponderebbe alla “voce della coscienza”, alla censura morale. Tale istanza si formerebbe dalla “prima e più importante identificazione dell’individuo, quella col padre della propria personale preistoria” e “mediante la costituzione di tale ideale, l’Io è riuscito a padroneggiare il complesso edipico). Il pensiero freudiano continua a rimanere potente nella capacità di lettura problematica della società.
    A Freud si continua a “ritornare”: per il fascino della sua scrittura che non è invecchiata - una trama maestra dell’esistenza che non è semplicemente un messaggio di saggezza, ma una potente euristica, e per la sua interpretazione di Edipo, che non è soltanto la nota tragedia di Sofocle, ma rappresenta il crocevia generazionale che svela la natura intima di un MITO a carattere universale.
    Edipo, ovvero il padre, il figlio, la donna; il potere, l’autorità la violenza; il desiderio, l’istinto e la sessualità; il dogma, …. Edipo è tutti noi! Ed è sempre attuale, più che mai oggi, in questa società dove sembra che il concetto di autorità paterna (portatrice dei valori tradizionali) sia diventata inconsistente: invisibile, imprendibile, contestabile, ….perché non c’è più!: ucciso dall’affermarsi di un mondo sempre più super-tecnologizzato in cui il “tutto” sembra potersi risolvere con un semplice click, alla perdita di riferimenti di valori antropologici all’arido monopolio di un’economia mondiale imperante che non “sente” ragioni umane.

    RispondiElimina
  7. Di grande interesse culturale l'argomento, di notevole profondità il saggio sulla figura dello scrittore O.Pamuk ad opera della nota studiosa scrittrice e poetessa Maria Grazia Ferraris. Dai suoi scritti c'è sempre da apprendere qualcosa e ogni volta ne restiamo affascinati per l'eleganza e accuratezza del suo dire.
    Non ho la profonda conoscenza della Ferraris sui romanzi di Pamuk, ma per quello che ho potuto notare concordo sull'importanza del mito. E' un fatto che il mito non è mai uscito dalla letteratura. E' attrattiva troppo forte e stimolante ...con facilità si piega a narrazioni e commenti sui comportamenti umani. In Pamuk "il tema dell'identità e autenticità" dice la Ferraris. Tema dunque moderno, ma anche non solo del nostro tempo; inoltre è sempre utile a mettere i evidenza un pensiero più generale. Per Pamuk quel pensiero è nei confronti della società del suo Paese...
    E' d'obbligo un ennesimo riconoscimento e un grazie a Nazario per l'interesse che il suo blog non manca mai di suscitare in tutti noi lettori, specialmente dopo pagine come questa.
    Edda Conte.

    RispondiElimina