venerdì 9 febbraio 2018

N. PARDINI LEGGE: "MARINA CVETAEVA..." DI M. GRAZIA FERRARIS



Maria Grazia Ferraris,
collaboratrice di Lèucade


Maria Grazia Ferraris. Marina Cvetaeva. Ma non è forse anche l’amore un sogno?. Macabor Edizioni. Rende (CS). 2018


Una preziosa figura quella di Maria Grazia Ferraris che nel panorama esegetico-letterario attuale occupa un posto di rilievo per  numerose pubblicazioni (poesia, narrativa, saggistica) incise in cartaceo o online. Dai suoi numerosi interventi sul blog Alla volta di Lèucade, di cui è assidua collaboratrice, e da quelli su altri importanti siti,  possiamo ricavare una connotazione precisa dei suoi intendimenti poetici e linguistici. Non è di certo simpatizzante di una poetica basata sulla riforma prosastica del verso che avrebbe voluto egemonizzato la  poesia italiana del tardo 900. Né tanto meno del correlativo oggettivo di stampo eliotiano vòlto alla spersonalizzazione, allo annullamento delle emozioni memoriali, o a qualsiasi ingresso di natura autobiografica. Il suo mondo ruota attorno ad una visione panica dell’universo poematico, attorno alla concretizzazione dei turbamenti soggettivi in figure naturistiche di cui si mostra e si è mostrata conoscitrice attenta ed esperta. Insomma un mondo contrario a quello di cui sopra, intriso di soggettivismo e di subbugli esistenziali cristallizzati in sinestetici allunghi non di rado di classica positura classico-formale. A conferma credo sia utile riportare qualche stralcio tratto dai suoi scritti su Lèucade:”…  Il  vero problema mi pare sia quello di interrogarci sul tema più sotterraneo, più culturalmente intrigante dell’identità e dell’autenticità, tema che sta alla base del romanzo, e che si deve pur affrontare convivendo con le modernità esasperate, mutanti e rutilanti della globalizzazione…”,”… È proprio la necessità di trovare un senso  ai nostri incubi quotidiani, alle nostre paure, nelle promenade europee, o tra la polvere dei bombardamenti siriani, che la letteratura scava di nuovo nelle sue origini per cercare una spiegazione che può essere la ciclicità della storia, o il fatto che l’umanità è irrimediabilmente piccola, feroce, vendicativa, ma capace anche di gesti nobili, di amore e sacrificio…”, “… Stanno andando in fumo anche  i ricordi, una parte della giovinezza di ognuno di noi, la memoria di serene camminate nel bosco, le albe celesti al Forte di Orino, i tramonti dal Sacro Monte, il fruscio delle chiome dove lo scoiattolo corre felice, i fiori di montagna, le prime primule, le peonie selvatiche e le centauree  dai colori solari… L’inferno dantesco offrirebbe a costoro una buona varietà di scelta di sistemazione …invece non so odiare, so solo dolermi, sentire una malinconia infinita, una tristezza amara per un paesaggio perso, morto, per una solitudine pacificante ricca  e riposante di vita in armonia con l’ambiente che è stata snaturato.
La natura violentata. Che tristezza!”. E a proposito di una mia traduzione di LE CIEL EST PAR DESSUS LE TOIT di Paul Verlaine: “Una splendida analisi che tocca, attraverso la conoscenza sicura della lingua d’origine, sottigliezze, profondità, ritmicità della stupita sbigottita disperata voce poetante, e la musica ripetitiva, ossessiva, ma senza enfasi, della vita che ci sfugge. 
Il modello di scrittura dell’Autore è profondamente vicino a quello del Traduttore- è semplice, classicheggiante, limpido e spoglio: è il linguaggio della verità-nuda- in cui si esprimono le ferite di una vita lacerata”. Si potrebbe continuare all’infinito considerando la generosità creativa della Nostra. Perché questa lunga premessa prima di affrontare il nocciolo della questione: la vita, l’arte, l’amore, la storia, l’intima vicenda di una grande scrittrice russa quale
Marina Ivanovna Cvetaeva? Conoscere il metodo, lo stile, la direttiva di cui un critico si avvale per un’analisi autoptica  credo sia indispensabile. E la Ferraris è senza alcun dubbio il critico più adatto per farlo, prima di tutto perché lei attenta riscopritrice di figure femminili in campo letterario, poi perché la sua scrittura non si perde in rocamboleschi tecnicismi che tendono più a confondere il lettore che ad altro. La sua penna sa cogliere l’essenzialità del personaggio; e lo fa con la sensibilità della poetessa; e penso che se nell’analisi di un testo un esegeta oltre a essere tale è anche poeta i risultati siano sicuramente più rotondi. Veniamo dunque all’opera presa in esame: Maria Grazia Ferraris. Marina Ivanovna Cvetaeva. Ma non è forse anche l’amore un sogno?. Macabor Editore. Rende (CS). 2018. Si legge in quarta: “… Nel saggio si riflette sul grande tema dell’amore che la caratterizza in modo originale, coinvolgente, anticonformista e drammatico, ma anche sul teatro che fu l’interesse dei suoi anni giovanili”.
Siamo di fronte ad un’artista che fa della modernità un campo di battaglia a tutto tondo: a livello linguistico e ontologico. Personalissima nello stile, nei sentimenti contrastanti, consegna alla iperbolica metaforicità tutto il malessere esistenziale, il magma di dicotomica effervescenza. La Ferraris, col suo stile fluente e generoso, con la sua analisi pervicace e penetrante, riesce a mettere in luce il potente risvolto emotivo di Marina Ivanovna Cvetaeva che ha vissuto l’amore e la dittatura col sacrificio della vita. Un vero dramma focalizzato con arguzia  esplorativa da un critico che dona il suo ingegno ad una ricerca attenta e produttiva, volgendo lo sguardo soprattutto al genio femminile; a quelle scrittrici non di rado dimenticate, pubblicandone sul nostro blog le vicende umane e letterarie con risvolti di estrema originalità.  
Marina Ivanovna Cvetaeva (1892 – 1941), povertà, giovinezza, dolore, amore, male d’amore; amore che chiedeva ad ognuno come prova del suo esistere. Un sentimento plurale e proteiforme come la sua arte autobiografica; esponente di spicco del movimento simbolista. Dissidente dello stalinismo emigrò a Berlino, Praga, Parigi, poi tornò a Mosca. Inviata in un campo di lavoro del regime si impiccò. La sua arte la colloca in un movimento simbolista ma di un  simbolismo tutto suo, le cui radici derivano da contaminazioni Puskiniane, soprattutto nel motivo del nonamore: “e con questo mi sono condannata al nonamore…”. Un animo complesso  articolato fedele e infedele, artista di una modernità ossessiva che ha fatto del suo messaggio erotico un motivo di vita: l’assenza, la passione degli assenti: “io posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”, afferma.
Il critico prende in esame i vari aspetti della produzione di Marina Ivanovna Cvetaeva nei tempi in cui si è manifestata: La vita intellettuale durante la Rivoluzione…, Il ragazzo (il Prode, Mòlodec), Il tema d’AMORE. Il “fuoco gelido” di Marina, Le figure mitologiche femminili di Marina…, “Ma non è forse anche l’amore un sogno?”, Il cerchio che si chiude: Il Teatro di M. Cvetaeva. Ma quello che emerge dal saggio è l’amore come punto focale, direttiva, filo rosso che fa da motivo centrale di tutto un percorso  artistico e umano. E che cosa di più emblematico nella vita che questo sentimento plurale e polivalente: simpatia, odio, gelosia, vendetta, sperdimento totale, volo in mondi altri… Insomma tutta la gradazione degli stati d’animo che fa dell’uomo un essere vivente; un  poeta; un narratore; un bohemien… E per dirla con Platone: “… al tocco dell’amore ognuno diventa poeta”. Si inizia con una perlustrazione storica sulla vita intellettuale russa durante la Rivoluzione: Vladimir Ja Propp e i suoi Canti popolari russi. “… Propp  sfata l’idea comune secondo cui l’universo della fiaba sia il luogo della pura fantasia e della libera creatività, dimostrando l’esistenza di precisi criteri di composizione narrativa”, scrive la Ferraris. L’amore di Marina per il folkrore russo. Il Prode e la favola di Afanas’ev intitolata Il vampiro. L’autobiografismo di Marina. “Il grande tema dell’amore. Desiderato, sognato, forse mai vissuto nella sua interezza…”. Poesie e poesie fino agli apprezzamenti di Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak che la definì “una donna dall’anima mascolina, risoluta, guerriera, indomabile…”. “Si deve soprattutto a Josif Brodskij che l’ha indicata al mondo per l’avvenire, se essa non sarà più pallida eco”. Si prosegue con: Il racconto di Sonecka, l’attrice nella compagnia del Terzo studio di Mosca: il rapporto tra donne. Giovinezza, memorie, amicizia. “Il racconto di Sonecka è la storia di un amore che trae la sua bellezza e grandezza nel non essere mai compiuto, mai fisicità”. Si disserta sul rapporto tra donne, una sintesi di anime e corpi perfetti. Il tema è trattato nella sua  compiutezza spirituale nell’opera sopra citata e in Lettera all’Amazzone, con tutta la forza di immagini e intuizioni “destrutturate dal reale”. A Nathalie Chifford-Barney, che faceva  dell’abbandono alle passioni un modello estetico di vita, Marina contrappone l’ineluttabilità della natura procreatrice, dacché per lei il vero rapporto è ultraterreno: il sogno, la lettera. Nel 1912 Marina sposa Sergej Efron, vivendo un sentimento romantico e di esasperata sensibilità. Succederà la sua delusione esistenziale che confesserà all’amica Anna Tesskovà: “un matrimonio precoce (come il mio) è una vera e propria catastrofe…”. Mentre rivela a Pasternak che non potrebbe vivere con lui non per le incomprensioni per la comprensione…”. Un animo di tale complessità esistenziale, il suo, da fare della vita un serbatoio continuo per l’arte della scrittura. Sempre rivolgendosi a Pasternak “… Tu sei sepolto dentro di me come l’oro del Reno”. Nel ’31 lo scrittore lascerà la moglie per un nuovo amore. E Marina si fa da parte, ma tanti i suoi amori che hanno determinato momenti di vita basilari per le sue opere. Quello con Kostantin  Rdzevič a cui la Cvetaeva dedicherà molte liriche e soprattutto Poema della montagna e Poema della fine.
Ma quello che alla fine prevarrà nell’animo della scrittrice sarà una noia divorante; una noia che la porterà ad una solitudine la cui sola compagnia “il suono della (tua) sua voce stessa”.
Sentimenti, passioni, ricerca spirituale dell’essere, malum vitae… tante le combinazioni ontologiche che troveranno substantia in una specie di mito che Ella prova per se stessa; una mitologizzazione esistenziale che trova posto nel mito classico di Psyche più volte  ricorrente nel suo canto; e Teseo, Arianna, Fedra, Ippolito: l’universo del mito classico fa parte della maturità poetica della poetessa:

scendo – stordita – senza ringhiere
scala infinita.
Arido sbirro, il sogno rovista
i miei misteri, spenti,
… Morfeo misura i cuori…
vigile aviatore sulla città nemica-
l’anima sorvola il sogno…
confessione immortale, il sogno rimesta
tutti i mei segreti…

Sogno come alcova, come slancio, come riserva di ideali, di sconfitte, ma anche di voli verso mete impossibili per il potere della vita. E’ attraverso il sogno che Psyche si reifica.

A letto vado
come  a teatro, per sognare:
per vedere  il paradiso
di Dante, l’elmo sacro di Achille,
per non vedere il massacro
della vita, i muri, il peso…

Anche fuga verso personaggi mitici che incarnano ideali, nel suo mondo solo e soltanto taciti ideali; solo e soltanto voglie di un amore impossibile per lei destinata alla sconfitta e alla gloria.
Nella stessa attività teatrale è sempre l’amore a tirare le fila della sua arte. Casanova è la formula del XVII secolo, un parallelismo tra la distruzione di un’epoca per la Rivoluzione francese e di quella russa per il neonato potere rivoluzionario sovietico. La tormenta, Un’avventura, Il fante di cuori, L’angelo di pietra, un racconto del ciclo romantico. Fino al lamento di Casanova : la vecchiaia, la perdita dell’amore e della vita…   E ci si accosta così all’epilogo di un dramma umano e psicologico di una scrittrice che del rifiuto di eros ha fatto un motivo di vita. La parabola si chiude proprio con l’ultima poesia dedicata al poeta Arsenij A. Tarkovskij:

Ho  apparecchiato la tavola per sei…”
uno hai dimenticato: il settimo.
Sui volti rivoli di pioggia.
Come hai potuto dimenticare il settimo
-la settima invitata?...
Non si divertono al tuo tavolo.
E’ oziosa la caraffa di cristallo.
Loro imbronciati, tu pieno di mestizia,
ma più di tutti io-
non invitata!...

Hai apparecchiato il tavolo per sei:
con solo sei- sei solo al mondo…

Non sei nessuno tu: marito, amico, figlio,
né fratello, ma non ti perdono:
al tuo tavolo pronto per sei anime
non mi hai  lasciato neanche un angolino.

D’altronde non si poteva chiudere che con il messaggio di epigrammatica tensione, di autobiografica intrusione di una scrittrice che ha fatto della sua arte la narrazione di un  dramma esistenziale.

Nazario Pardini


Nessun commento:

Posta un commento